Avvenire di Calabria

Excursus storico sulla normativa che regola la disciplina pubblico-privata

Corruzione, contagio da fermare

Lucia Lipari

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Le società partecipate o controllate rappresentano spesso matrioske ben congegnate di servizi da un lato e di commistioni tra malaffare e affarismo dall’altro. Che si parli di corruzione negli appalti pubblici o tra privati, il dato che balza agli occhi è che troppe volte è la ‘ndrangheta stessa ad impersonare la classe dirigente, a sottrarre quote di democrazia, drenando risorse pubbliche anche dinanzi a sciagure come un sisma, insomma insinuandosi «nelle stanze dei bottoni».
Eurobarometer e il Corruption Perception Index di Transparency International ci consegnarono un dato allarmante: il 97% degli italiani riteneva e ritiene la corruzione un fenomeno dilagante in Italia, contro una media europea del 76%.
Secondo la Corte dei Conti, l’onere della corruzione sui bilanci pubblici italiani era nella misura di circa 50–60 miliardi di euro l’anno, a fronte dei 120 mld stimati a livello europeo.
Dataset a parte, la corruzione è una morsa che stringe l’Italia da nord a sud, sfruttando a tratti la sottovalutazione del problema, il falso mito da prima repubblica per cui mafia e corruzione siano fenomeni distinti e separati; a tratti le maglie larghe della nostra legislazione, che non vede ad oggi pienamente trasposta la Direttiva europea per contrastare il fenomeno. Il nodo è individuare “le società lavatrici”, riuscendo a bloccare le preoccupanti infiltrazioni e le frequenti sofisticazioni delle gare d’appalto, le assunzioni pilotate di personale e manager.
La presenza di numerose stazioni appaltanti, la parcellizzazione dei contratti e il ricorso eccessivo al subappalto, rende questo compito difficile. I sedicenti funzionari non attendono inermi alla scrivania, ma vanno in cerca spesso della buona occasione che perfezioni un vero e proprio patto corruttivo. Va detto però che la legge anticorruzione n. 190/2012 ha sottolineato in modo particolare i collegamenti che sussistono tra distinti sistemi normativi come quelli sull’anticorruzione e sulla responsabilità d’impresa, in ordine ai reati commessi da propri dipendenti ai sensi del D. Lgs. 231/01.
È tuttavia la Legge 69/2015, sul solco delle precedenti disposizioni, che consolida il contrasto alla cor- ruzione contemplando un aumento della pena edittale per i reati di peculato, corruzione, induzione indebita a dare o ricevere utilità, nonché per il delitto di associazione di tipo mafioso.
L’Anac, nel giugno 2015, ha stabilito inoltre nuove linee guida per arginare la corruzione all’interno delle società controllate dalle P.A. o dallo Stato. Difatti «le società dovranno effettuare un’analisi del contesto e della realtà organizzativa per individuare in quali aree o settori di attività e secondo quali modalità si potrebbero astrattamente verificare fatti corruttivi», dovranno dotarsi di un piano triennale per la trasparenza e l’integrità, prevedendo uno specifico sistema di responsabilità, il divieto di cumulo di cariche ammini-strative, secondo cui non si potrà essere membro di svariati CdA, la rotazione degli incarichi, rigide incompatibilità e tutele per chi svela il malaffare.
Il cambiamento, tuttavia, non può essere demandato esclusivamente ad uno stringente impianto normativo o alla politica, tanto criticata quanto attesa, ma deve chiamare in causa ciascuno di noi ed il nostro rapporto con l’etica pubblica.

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