Avvenire di Calabria

La proposta: «Individuare un piano strategico con istituzioni, operatori del settore e parti sociali»

Denuncia della chiesa di Rossano: «Stop capolarato e lavoro nero»

La lettera aperta: «Questi fenomeni, in una società definita civile, non possono essere più tollerati»

Raffaele Iaria

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«Il mondo del lavoro, soprattutto in questo periodo, nel territorio della nostra diocesi, è caratterizzato da fenomeni di fronte ai quali non possiamo rimanere indifferenti. Ci riferiamo al ‘caporalato’, al ‘lavoro in nero’ e ad altre forme di sfruttamento che affliggono non solo tanti nostri concittadini, ma anche migliaia di fratelli e sorelle che vengono da diversi Paesi del mondo come lavoratori stagionali». È la denuncia che arriva oggi dalla diocesi di Rossano-Cariati che, attraverso gli uffici diocesani Migrantes, Pastorale Sociale e Lavoro, del Mlac (Movimento Lavoratori Aziona Cattolica) e della Caritas, ha inviato una lettera alle principali istituzioni del territorio.

I firmatari della lettera aperta vogliono «gridare con forza che questi fenomeni, in una società definita civile, non possono essere più tollerati» e chiedono «a chi di dovere il coraggio di far in modo che le dovute precauzioni vengano messe in atto, così come dichiara il dispositivo dell’art. 603 bis del Codice Penale e tutte le leggi che tutelano i lavoratori. Del resto – spiegano - la nostra Costituzione proprio all’art. 1 recita: "L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro"». Bisogna, perciò, «individuare un piano strategico di lungo respiro, che coinvolga le istituzioni pubbliche, le aziende e/o cooperative che operano nella legalità e le Parti Sociali, per liberare i tanti lavoratori che sono finiti nella pericolosa trappola del caporalato, perché il lavoro sia ‘libero, creativo, partecipativo e solidale, in modo tale che così l'essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita», come scrive Papa Francesco.

I firmatari evidenziano che «partendo dal fatto che i lavoratori sono già in nero poiché chiamati ‘a giornata’, vengono dal datore di lavoro sottopagati e senza tutti i necessari riguardi verso di essi. A questo bisogna aggiungere il compenso in percentuale che bisogna versare al caporale per aver trovato il lavoro. Quello che rimane al lavoratore è meno che niente». Il «lavoro in nero» è diverso dal caporalato perché – si legge nella missiva - non c’è la relazione della terza persona. In questo caso gli accordi vengono presi tra datore di lavoro e lavoratore, ma intercorrono altre puntualizzazioni come la promessa della disoccupazione o della malattia. Questa viene versata direttamente agli uffici di competenza, per cui il datore di lavoro dichiara che i lavoratori sono in regola, ma in realtà questi ultimi non riceveranno mai un centesimo dai primi e quindi si ritroveranno a lavorare gratuitamente per un padrone, non più di una terra, ma della persona stessa. A questo si aggiunge che, per poter riscuotere l’indennità di disoccupazione e per il diritto all’assistenza sanitaria, è necessario essere in possesso della carta di identità, che si ottiene solo con l’acquisizione della residenza anagrafica. Quest’ultima, a sua volta, si può avere se si ha un contratto di lavoro regolare e un contratto di fitto, per il quale, spesso, vengono chieste somme onerose».

Gli uffici della diocesi calabrese sottolineano, poi, che i lavoratori stranieri «verso i quali, spesso, si diffonde la convinzione che vengono a derubare il lavoro ai nativi del posto vivono in condizioni di vera e propria schiavitù. Infatti sono sottopagati o non pagati del tutto, senza servizi igienici, costretti a dormire in dieci o più in una camera, senza cibo perché non retribuiti, ricattati dai loro stessi conterranei che ne diventano caporali fino a diventare fantasmi dello stesso territorio in cui vivono».

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