Avvenire di Calabria

Dispersione scolastica, problema da non sottovalutare

Occorre creare le condizioni perché sempre più giovani restino all’interno del sistema scolastico, raggiungano i titoli di studio e conquistino i risultati di formazione

Alberto Campoleoni

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La dispersione scolastica resta un problema molto serio per la scuola italiana. E se negli anni recenti gli indicatori nazionali hanno fatto registrare un miglioramento nei tassi di abbandono, l’ultimo report dell’Istat mette ulteriormente in allarme il nostro sistema: infatti, nel 2017, la quota di 18-24enni che hanno lasciato precocemente gli studi si stima pari al 14% e per la prima volta dal 2008 – ecco l’aggravante – il dato non ha registrato un miglioramento rispetto all’anno precedente.
Sempre l’Istat informa che l’abbandono scolastico precoce è molto più rilevante tra gli stranieri rispetto agli italiani (33,1% contro 12,1%). Anche se dal 2008 ad oggi proprio tra gli stranieri si è registrato il miglioramento più consistente (con la riduzione degli abbandoni). Se c’è differenza tra ragazzi italiani e stranieri, un’altra differenza importante sul versante dell’abbandono scolastico è quella legata alle provenienze geografiche: chi lascia precocemente la scuola, infatti, lo fa con più facilità al Sud (18,5%), mentre al secondo posto di questa speciale classifica si colloca il Nord (11,3%). Al Centro le cose vanno un po’ meglio: 10,7%. Le differenze territoriali in verità non stupiscono: sono infatti una costante nei dati che riguardano la scuola italiana (non solo per il tema degli abbandoni e non sempre con la stessa variabilità) e , segnala sempre l’Istat, non accennano a ridursi.
Insieme alla problematica dell’abbandono scolastico precoce, sotto la lente di ingrandimento degli osservatori c’è da anni la questione dei cosiddetti Neet (Neither in employment nor in education and training), cioè di quei giovani che né studiano né lavorano. L’Istat segnala che nel 2017 in Italia i Neet erano 2 milioni e 189 mila (24,1%): il 41,0% cerca attivamente un lavoro e il 29,8% sono forze di lavoro potenziali. Dall’inizio della crisi economica (nel 2008) la quota Neet in Italia è salita fino a raggiungere il massimo nel 2014 (oltre il 25%) per poi cominciare a scendere. Il valore dell’indicatore resta però ancora circa 5 punti superiore rispetto a quello del 2008 (19,3%) e la quota Neet italiana resta la più elevata tra i Paesi dell’Unione e decisamente superiore al valore medio Ue (13,4%).
Un altro dato interessante che emerge dalla rilevazione Istat riguarda i titoli di studio: nel 2017, in Italia, il 60,9% della popolazione di 25-64 anni ha almeno un titolo di studio secondario superiore, mentre la media europea si assesta sul 77,5%. Ma il dato che segnala maggiormente la fragilità italiana è quello che riguarda la percentuale di persone con un titolo terziario, una laurea: nel 2017, infatti, la quota di 30-34enni in possesso di titolo di studio terziario è del 26,9%, mentre la media Ue si assesta al 39,9%. Nonostante un aumento dal 2008 al 2017 di 7,7 punti l’Italia è la penultima tra i paesi dell’Unione e non è riuscita a ridurre il divario con l’Europa.
Naturalmente il report dell’Istat è una miniera ricchissima di spunti e si presta alle più disparate valutazioni. Una su tutte, però, va rilevata ed è la necessità di “più scuola”. Creare le condizioni perché sempre più giovani restino all’interno del sistema scolastico, raggiungano i titoli di studio, conquistino i risultati di formazione che permettono poi anche un inserimento efficace nel mondo del lavoro deve restare un obiettivo importante della politica, da ricordare in momenti di cambiamento come l’attuale.

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