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L'importanza del lavoro marittimo e la cura del mare sono spesso trascurate: la domenica del mare celebrata qualche giorno fa serve anche a riaccendere i riflettori su questo tema. Questo articolo di don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei, esplora il valore fondamentale dei marittimi e la necessità di proteggere il nostro ambiente marino, evidenziando le sfide e le responsabilità che tutti noi condividiamo, anche per una rinnovata pastorale delle diocesi di mare.
«Lontano dagli occhi, lontano dal cuore»: l’antico adagio annuncia il contrario della cultura della cura. Interpreta benissimo il pericolo che corriamo nei confronti dei marittimi. Molti di essi viaggiano in mare per mesi e mesi senza poter assaporare la quotidianità della vita familiare. Il mondo marittimo è l’arteria dell’economia globale ma rimane ai margini, avvolto da un tremendo silenzio. Risulta facile vittima di una società che non riesce a garantire a tutti il giusto riconoscimento per le fatiche e le rinunce.
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Sulle navi e nei porti non mancano forme di sfruttamento, ingiustizia e disuguaglianza che preoccupano. I marittimi sono membra invisibili di un mondo che ha un bisogno assoluto del loro lavoro. Ogni armatore sa quanto sia importante un equipaggio. Non solo, sa ancora di più che il valore aggiunto in una nave è la qualità delle relazioni, tanto che se il gruppo è affiatato ne aumenta la quotazione economica.
La Domenica del mare, celebrata il 14 luglio, ha riproposto l’importanza del lavoro marittimo anche per la pastorale delle diocesi di mare. Il messaggio del cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, ricorda come i porti siano, dall’epoca di san Paolo, luoghi favorevoli per l’evangelizzazione.
Le modalità sono molteplici: «Incontrando la gente del mare di persona e nella preghiera; migliorando le condizioni materiali e spirituali di questi lavoratori; difendendone la dignità e i diritti; promuovendo relazioni internazionali e politiche volte a salvaguardare i diritti umani di coloro che navigano e lavorano lontano dalle famiglie e dal proprio Paese di origine». Come a dire, nel mare non contano solo gli scambi commerciali per la salute dell’economia. Contano ancora di più gli incontri personali che possono far trasparire la gioia della testimonianza di fede.
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All’opposto domina l’indifferenza e la cultura dello scarto. Così, ieri come oggi, l’ascolto delle sofferenze che salgono dal mare può diventare occasione per annunciare il Vangelo. Le visite quotidiane a bordo dei volontari delle Stella Maris sono lì a dimostrarlo. Mostrano che alla Chiesa sta a cuore la vita dei marittimi. Nelle città dove esiste l’associazione Stella Maris non può mancare il sostegno della Chiesa locale e la capacità di dare futuro a questa esperienza unica di volontariato.
C’è bisogno di rafforzare la «catena del bene» per rendere ancora più concreta la prossimità del servizio a bordo delle navi. Le molteplici forme di cura umana e pastorale sono il segno di una Chiesa madre e sorella: essa prega coi marittimi, si attiva per i loro bisogni materiali, si prodiga per le loro necessità umane e spirituali. La cura pastorale è un modo per dire «mi stai a cuore!».
Tuttavia la Domenica del mare non deve farci dimenticare l’attenzione al mare come bene comune che soffre i cambiamenti climatici e l’inquinamento. L’ecologia integrale, alla luce dell’enciclica Laudato si’, è anche questo. Alcuni dati fanno riflettere. Il primo è che tra il 70 e l’80 per cento di rifiuti rinvenuti sulle spiagge e nei mari è plastica. Tutti ne siamo responsabili. La cura del creato passa anche da uno stile di vita sempre più plastic free.
Il secondo dato è che il mare assorbe il 90 per cento dell’eccesso di calore dell’atmosfera. Ciò significa che la temperatura dell’acqua si scalda favorendo la migrazione delle specie marine. In tal modo, il mare diventa meno “fertilizzato” (diminuisce il cibo per i pesci), si “deossigenizza” e si acidifica perché assorbe il 40 per cento dell’anidride carbonica prodotta dall’uomo. Se il mare soffre, le conseguenze si riversano sull’intero pianeta. Il grido del mare è rivolto all’uomo che sa ascoltarlo e trasformarlo in impegno concreto. Molti pescatori e marittimi stanno facendo la loro parte. Forse qualcuno andrebbe motivato a fare di più e meglio.
Il genio poetico di Wisława Szymborska nel testo Parabola fa comprendere quanto il mare possa generare distanza e indifferenza. Scrive: «Dei pescatori tirarono fuori dagli abissi una bottiglia. Dentro c’era un pezzo di carta, con scritte queste parole: “Aiutatemi! Sono qui. L’oceano mi ha gettato su un’isola deserta. Sto sulla sponda e aspetto aiuto. Fate presto. Sono qui!”. “Non c’è data. Sicuramente ormai è troppo tardi. La bottiglia può aver galleggiato in mare per molto tempo” disse il primo pescatore. “E non c’è indicazione del luogo. Non si sa neanche quale oceano sia” disse il secondo pescatore. “Non è né troppo tardi né troppo lontano. L’isola qui è ovunque” disse il terzo pescatore. Seguì una sensazione di disagio, calò il silenzio. È quel che accade con le verità universali».
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Oggi, oltre ai marittimi, è il mare stesso a gettare il suo grido di aiuto. Non basta discutere sulle responsabilità, rimanendo tra le verità universali. Viene da chiedersi: a chi tocca il primo passo? Ciascuno faccia ciò che vede possibile per lui. Tuttavia, abbiamo anche bisogno di risposte politiche planetarie. In un mondo globale la tutela dei mari e degli oceani chiede norme e istituzioni internazionali credibili, in grado di prendere decisioni. Infatti, che senso ha una legge europea sul fermo pesca senza il coinvolgimento dei Paesi della sponda africana del Mediterraneo? La tutela del mare esige regole condivise per il bene comune. Il mare è di tutti. La salute del pianeta è per tutti. Siamo interconnessi. Un unicum.
* direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei
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