Avvenire di Calabria

Da quasi trent’anni, infatti, vive e svolge il proprio ministero pastorale in Madagascar orientale, nella diocesi di Moramanga della quale è vicario

Don Claudio Roberti: sacerdote reggino, ma malgascio d’adozione

Francesco Creazzo

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Cinque anni da laico e ventidue da sacerdote, spesi ai confini del mondo per portare la luce del Vangelo. È questo l’identikit di don Claudio Roberti, reggino ma malgascio d’adozione: da quasi trent’anni, infatti, vive e svolge il proprio ministero pastorale in Madagascar orientale, nella diocesi di Moramanga della quale è vicario. Un territorio in cui il tasso di evangelizzazione è molto alto rispetto al resto del Paese africano (il 40% contro il 20% della media nazionale) ma che ospita una popolazione la cui disponibilità ad aprirsi al messaggio evangelico, come ci ha raccontato, è superiore a quella della nostra società occidentale, ormai scristianizzata.

 
Don Claudio, cosa significa essere missionario?
Vuol dire essere cristiani, vuol dire essere cristiani cattolici che vivono pienamente la loro vocazione. Che sia qui in Italia che sia in altra parte del mondo. L’importante è essere inviati dalla Chiesa: essere missionario non è solamente aver ricevuto dei sacramenti e sentirsi abilitati ma bisogna anche essere inviati dalla comunità che supporta, che ti aiuta con le preghiere, anche materialmente, perché si possa realizzare, secondo il mandato di Gesù, la missione che è quella di evangelizzare.
 
Un paese che è considerato in via di sviluppo, nel quale predicare il Vangelo presenta anche delle sfide molto pratiche…
Sì, persino l’amministrazione dei sacramenti è molto complicata perché la diocesi è grande undici volte la provincia di Reggio e, avendo 20–30 comunità cristiane da servire, il tempo e anche i mezzi per spostarsi spesso sono insufficienti. Siamo sempre di corsa. Il missionario in Madagascar è uno che sta sempre per strada proprio a immagine di Gesù. Chiaramente quello che può fare la chiesa o il prete missionario deve restare principalmente un segno, poi la comunità cristiana, quindi anche molti i laici, che si impegnano a che questo segno non sia solamente un episodio, un segno di carità, ma che diventi promozione umana, di salvezza anche “materiale” per le esigenze dei locali.
 
Quali differenze ci sono tra l’Italia e il Madagascar in termini di evangelizzazione?
La differenza che vedo io è che qui abbiamo molto “parolizzato”, di tutto si fanno montagne di parole. Per cui anche la Paola di Dio diventa una parola tra le altre parole. E allora tutto diventa molto complicato. Invece nei paesi poveri, normalmente non si ha tanto tempo e tanto spazio per parolizzare tutto ed è molto più facile trasmettere la fede perché non ci sono sovrastrutture intellettuali o virtuali che la annacquano. Quello che è comune in ogni caso, sia nei paesi del terzo mondo sia nei paesi nel primo mondo è che tutti quanti siamo soggetti al peccato che è una parola che è un po’ scomparsa dal nostro linguaggio qui in Italia. Gesù è venuto a salvarci dal peccato e dalla morte, e tutti i problemi sono solamente frutto del peccato. I missionari, sia qui in Italia che all’estero, dovrebbero poter aiutare tutti quanti a capire che è più importante ottenere la salvezza da Gesù, la salvezza dell’anima per la vita eterna e che non siamo fatti per vivere sempre su questa terra. Siamo fatti per vivere eternamente in una condizione che il Signore ci ha preparato. Mentre nel Madagascar facilmente ci si domanda “perché questa vita di sofferenze, di precarietà?” e, quindi, viene anche la domanda di salvezza. Qui invece non c’è più la domanda di salvezza.

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