A volte, le difficoltà personali possono servire ad edificare una comunità migliore; altre volte ti distruggono, ti triturano. Una storia di vita vera ci consente di affrontare un problema di molti: la mancanza di alloggi nei quali le persone con disabilità possano vivere con dignità.
Una premessa: cosa vuol dire “famiglia con disabilità”? Significa papà che si muove in sedia a rotelle, mamma con sclerosi multipla (e una serie di esigenze sanitarie collegate complesse che impongono l’uso cronico di farmaci impegnativi) e un bimbetto di 2 anni che cresce velocemente. Un particolare: viviamo in una piccola casa rurale alla periferia di Reggio Calabria, molto ro- mantico e pittoresco, ma inadatto a chi deve alzarsi la notte per recuperare farmaci nel frigo o ad un frugoletto che cresce. Non è una croce o una punizione divina, ma la vita reale, concreta, che viviamo ogni giorno. L’equivoco comune ci descrive o come famiglia “eccezionale” o come coppia di persone a cui si rivolge il detto: «Hai voluto la bicicletta? Ora pedala».
Non è così: noi genitori con disabilità con un figlio viviamo la vita ordinaria di tutte le famiglie. Però ci rendiamo conto che la nostra disabilità pone una questione di diritti umani e non possiamo tacere. Vorremmo una casa più adatta al nostro bambino, accessibile e sicura. A Reggio Calabria non si può né comprarla, né affitarla, né costruirla.
Quali i diritti fondamentali in gioco? La risposta è contenuta nella Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità del 2006 che in Italia è operativa dal 2009. Le persone con disabilità hanno diritto alla propria vita indipendente. Alle persone con disabilità deve essere garantita la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza, dove e con chi vivere. Ecco i diritti fondamentali che entrano in gioco per questo aspetto della nostra vita. Ma cosa dice la legge Italiana? La nostra normativa prevede tre livelli di qualità dello spazio costruito: accessibilità, visitabilità ed adattabilità.
La previsione di tre livelli di qualità dell’ambiente costruito – tutti “legali”– ed, in particolare, la possibilità di raggiungere il solo livello della adattabilità, viola i diritti umani fondamentali e nega di fatto il diritto all’accessibilità. Cosa vuol dire questo in concreto? In parole povere, a Reggio non esiste la possibilità pratica di trovare un alloggio senza gradini all’ingresso, con porte interne sufficientemente grandi per poterci passare con la sedia a rotelle, in cui i bagni siano di facile fruizione. Attenzione però: formalmente è tutto “a norma”: notai, progettisti, collaudatori e tecnici asseverano – senza difficoltà – che tutto è a posto e si va avanti.
Tanto poi, se “il disabile” ha bisogno, qualcuno che lo aiuti c’è, mica sta da solo, no? E poi ci siamo io, mia moglie e nostro figlio che diventiamo “segno di contraddizione”. Cercando solo di realizzare una vita ordinaria in una città dove i diritti di base sono chimere. La vicenda mi fa riflettere: sono oltre 30 anni che viviamo in un paese “sensibile” alla disabilità, ma pensiamo sempre si tratti di qualcosa che riguardi altri, le istituzioni, un mondo distante. Invece riguarda le nostre case – letteralmente – e coinvolge scelte possibili.
Lottiamo per la dignità della vita. Tutti: credenti e non credenti. Siamo parte di una sola comunità e non possiamo tacere.