Reggio Calabria – Bova, tre nuove nomine dell’arcivescovo Fortunato Morrone
Le nomine entrano in vigore da oggi, i sacerdoti interessati sono Don Antonino Vinci, Don
Due suore volontarie raccontano l'importanza degli affetti per le persone che si trovano in carcere: le relazioni con la famiglia, i colloqui e le telefonate diventano momenti di gioia e speranza, ma anche di profonda sofferenza quando vengono a mancare.
Suor Elvira Cisari, delle Serve di Maria Riparatrici, da quasi dieci anni presta il suo servizio di volontaria nel carcere maschile di Arghillà. Con la sua esperienza, ha potuto osservare quanto sia centrale il legame con la famiglia per i detenuti.
«La famiglia è il punto più importante per la persona detenuta; oserei dire che è l’ancora a cui aggrapparsi, un legame forte che dà vita, respiro e gioia», racconta suor Elvira Cisari, descrivendo con immagini vivide il momento che precede il colloquio con i familiari: «I detenuti cercano di vestirsi bene, farsi belli, avere qualcosa da donare e mostrarsi sorridenti, anche se dentro di loro portano sofferenze e preoccupazioni».
Quando il momento del colloquio si avvicina, i volti si illuminano e l'emozione è tangibile: «L’adrenalina sale dalla gioia di varcare quelle sbarre per incontrare le persone a loro care», spiega suor Elvira, evidenziando l'importanza di questi attimi per il benessere psicologico del detenuto.
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Tuttavia, non sempre tutto va liscio. Se i colloqui vengono annullati o le videochiamate non sono disponibili a causa di guasti tecnici, i detenuti vivono momenti di forte frustrazione. «Quando non possono fare la chiamata o la videochiamata, si crea in loro nervosismo e sofferenza», afferma la suora, che ha imparato a riconoscere queste reazioni come segnali di un profondo bisogno di connessione con i propri affetti.
Il disagio è ancora più grande per i detenuti stranieri, molti dei quali non riescono a contattare le famiglie nei Paesi d’origine. Le distanze geografiche, le guerre e le difficoltà di comunicazione trasformano la lontananza in un'angoscia quotidiana. Suor Elvira racconta un episodio toccante: «Un giorno provai a chiamare la mamma di un fratello di origini marocchine, e lei credeva che il figlio fosse morto. Quando seppe che era vivo, anche se in carcere, pianse di gioia».
Questi gesti di umanità permettono ai detenuti di sentirsi meno soli e a volte avviano processi di riconciliazione familiare. Non sempre, infatti, la famiglia riesce a perdonare chi ha commesso un reato, ma suor Elvira cerca di favorire il dialogo: «Raramente ho visto rifiuto o non accettazione da parte della famiglia, ma nei casi in cui accade, ho sempre cercato di mediare. A volte non è facile, ma il Signore trova sempre la sua strada».
Il tema della riconciliazione tra detenuti e familiari è uno dei più delicati, soprattutto per i genitori detenuti. Suor Elvira spiega: «Essere genitori da persone ristrette non è facile, perché ci si rende conto di aver, in un certo senso, abbandonato la famiglia. Ma al tempo stesso si cerca di fare qualcosa per aiutarla».
Il cuore della riflessione della suora si concentra sul valore della redenzione: «Credo, e ne sono convinta, che chi ha commesso un reato ha e deve sempre avere la possibilità di redimersi». Questa possibilità, aggiunge, deve essere sostenuta anche dalla famiglia, che resta il pilastro su cui costruire un nuovo inizio.
La testimonianza di suor Rosetta Colombo delinea una prospettiva diversa ma altrettanto forte. Presente come volontaria nella sezione femminile Nausica del carcere di San Pietro, suor Rosetta incontra quotidianamente madri detenute.
«La realtà che si presenta ai miei occhi entrando nella sezione Nausica è impegnativa e stimolante», racconta suor Rosetta Colombo, sottolineando la complessità delle dinamiche relazionali nel contesto carcerario femminile.
«Parole rivestite di lacrime raccontano quanto i figli abbiano bisogno dello sguardo, della carezza e dell’abbraccio della loro mamma», spiega suor Rosetta, che ha visto tante donne confrontarsi con il peso del proprio errore. Il senso di colpa diventa per molte un macigno insopportabile, ma anche un'opportunità di riflessione.
«In questi momenti, parliamo della misericordia del Padre e della possibilità di ricevere il sacramento della Riconciliazione, che dona pace e serenità», racconta la suora. L’obiettivo è mostrare che il perdono e la redenzione non sono solo concetti astratti, ma realtà concrete che possono cambiare la vita delle persone.
Uno dei sogni più grandi di suor Rosetta Colombo è la creazione di momenti di incontro più intimi e umani tra madri detenute e figli. Non solo le classiche visite, ma giornate dedicate alla relazione familiare, con giochi e attività creative.
«In un altro carcere, ho visto bambini dai quattro mesi ai dieci anni giocare, disegnare e ridere con le loro madri. C'era un buffet e tante risate», ricorda la suora. Un'esperienza che spera di replicare anche per le detenute di San Pietro, permettendo alle madri di vivere qualche ora con i propri figli in un contesto di normalità e affetto.
Le esperienze di suor Elvira Cisari e suor Rosetta Colombo mostrano come le volontarie in carcere siano presenze preziose e insostituibili. Non solo offrono supporto pratico, ma si fanno testimoni di un amore che non giudica.
«Quando esco dal carcere, il mio cuore è sempre gonfio di emozioni e preghiera per loro», confessa suor Rosetta, che ha imparato a chiamare le detenute «care sorelle». Il carcere diventa così un luogo di presenza e ascolto, dove le relazioni umane e spirituali si fanno più profonde e intense.
Quando suor Rosetta esce dal carcere, il suo cuore è sempre gonfio di emozioni e preghiera. Le detenute non sono più "persone da aiutare", ma vere e proprie sorelle care, come le definisce. La sua missione è portare amore e sostegno, con il sogno di favorire legami familiari più forti anche dietro le sbarre. La relazione con i figli, che per molte detenute è causa di sofferenza, diventa anche il motore del cambiamento e della speranza di riscatto. Sostenere la maternità delle detenute non è solo un atto di giustizia, ma anche di umanità.
«Chi ha commesso un reato ha e deve sempre avere la possibilità di redimersi», afferma suor Elvira. «La famiglia stessa deve donare questa possibilità. Al di là di tutto, rimane quel legame d’amore che non si distrugge ma deve ricrearsi. Io sono testimone della bellezza dell’amore che esiste tra le persone ristrette e i loro familiari: è una gioia nell’ascoltare un colloquio vissuto, una telefonata fatta, la nascita di un figlio, ma, a volte, anche un lutto di un proprio caro o una malattia. In tutto questo, cerco di essere presenza d’amore a servizio della vita. Ringrazio il Signore per avermi dato la gioia di vivere accanto a questi miei fratelli ristretti e ai loro familiari, e auguro a ciascuno di loro di poter un giorno ritornare in famiglia per vivere in pienezza l’amore, e ai familiari di poterli riabbracciare con gioia».
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