Avvenire di Calabria

Un viaggio con i volontari che di notte portano il cibo ai senzatetto rimasti ancora più soli nella fase dell'emergenza Coronavirus

Gli angeli del servizio tra gli «invisibili» di Reggio Calabria

Gianluca Del Gaiso

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Silviu ci accompagna alla porta per salutare, ringraziandoci della visita. Il portone si chiude dietro di noi. Tutto regolare, non fosse che quella porta non ha i vetri ma solo l’intelaiatura. Non c’è nessun chiavistello perché è stato sfondato anni fa e il "grazie" era perché oggi ha mangiato. La sua educazione, qualcosa che sembra venire da una vita passata che gli è rimasta dentro nonostante tutto. Nel sentire comune lui è del popolo degli “invisibili”. Di fatto nemmeno tanto se si considera quel verbale da 280 euro con tanto di identificazione che si è preso qualche giorno fa insieme ai suoi "coinquilini di povertà".

Dal Girasole, lui come gli altri deve andare via perché è un abusivo. Di fatto quella latrina con le lamiere sotto al cielo è l’unica copertura che una città senza strutture per ospitare i senzatetto, offre per gente come lui. La paura del Coronavirus sembra quasi un fantasma dei tempi della “Spagnola”. Troppo lontana per tenere il passo con la paura di non sopravvivere, che Alessandro (ass. Abakhicon il suo furgoncino dell’Help Center e i ragazzi del Clan Dejavu RC7 che da qualche giorno si sono uniti al gruppo, non passino con il panino. Ma l’uomo che nella sua natura è profondamente abitudinario e bisognoso di certezze, riesce a sopravvivere in condizioni forse a lui stesso poco prima inimmaginabili. Silviu di quello spazio che doveva essere una bottega del famigerato centro commerciale, ha fatto una stanza da “clochard hotel” con tanto di divano raccattato chissà dove, un materasso distrutto per giaciglio insieme ad un cane alto un palmo che di vita forse ne ha vista più di un umano da un metro e ottanta.

Antonello, Jessica e Valeria, i volontari, stanno organizzando la seconda tappe del giro, quando sulla scala visibilmente zoppo, appare un altro spettro del Girasole. «Scusate se disturbo, forse mi potete aiutare». Non il panino e l’acqua ma quelle parole, quella non fretta di andare via, lo ha convinto in qualche modo che si poteva fidare e così chiede di poter vedere un medico. Non ha quello di base ovviamente e nelle strutture pubbliche gli dicono di tornare dopo. Anche se lui quell’operazione l’ha fatta qui. Anche se ha un tesserino che gli permette di mangiare alla mensa di Archi. Nel giro di qualche telefonata si organizza un possibile appuntamento con un medico per quest’uomo che non dorme da tempo per il dolore che certe notti lo assale. Il giro prosegue verso San Luca. Anche qui nastri rossi contro l’abbandono stonano forte sotto le finestre coi vetri rotti. Segno certo che qualcuno ha trovato riparo. 
 
A volte si è portati a pensare che la strada sia una scelta, ma Aldo “matto col botto” non lo è proprio. È solo un ragazzo di quelli con la maglietta con le scritte, i jeans tagliati come si usano oggi e un fisico asciutto da far invidia a tanti che si buttano ore di palestra. Arriva giù quando sente il camioncino. L’altro ragazzo, anche lui nordafricano, dice, non verrà, si è organizzato con un fornellino da campo e ha da mangiare. Le ragazze chiedono se ha bisogno di qualcosa.

Dice di no, poi ci ripensa «forse una lametta» per farsi la barba. «Hai lo specchio o finisce che ti tagli?» Sorride: «ne abbiamo un pezzo dentro, grazie lo stesso». I suoi amici più grandi ormai non sognano più un futuro. Lo senti a metri di distanza tra i cartoni di vino a basso prezzo venduto al supermercato dove sostano per raccogliere l’elemosina. Hanno i vestiti strappati e in attesa che i centri di ascolto riaprano coi loro servizi, i ragazzi si appuntano quello che pensano di riuscire a recuperare per l’indomani. Intano qualcuno ha un paio di scarpe usate per il pallone nel cofano della macchina. Per qualche settimana andranno bene per almeno uno di loro.

Si avvicina un signore dall’aspetto distinto. È nella valle della resistenza tra un oggi in cui ringrazia il cielo di aver avuto pane ed acqua e un sogno di un domani migliore. Ma lui di anni non è ha passati dodici in carcere come l’uomo che piange sul ciglio della strada, ma lì vicino. Guarda Alessandro più volte come a scrutarlo, poi dice: «ora mi ricordo». Era il ragazzo che faceva le punture al suo amico di sventura e di vita, Rustan, prima che l’alcol se lo portasse via completamente. «Che Dio ti benedica». Di ritorno i ragazzi girano con le auto in cerca di chi conoscono ma non trovano.

Poco lontano una sorpresa. È l’amico di quel ragazzo morto qualche giorno fa. Non sta bene e si vede. Pochi mesi fa era in strada ma col sorriso, un’amica accanto e un fratello acquisito con cui condividere la giornata. Oggi è solo, tanto solo che il suo corpo gracile sotto le coperte stona quasi fosse una campana spezzata sotto il portone grande del Duomo spento.

Hamed, il cui dolore a queste latitudini nessuno ha mai fatto in tempo a raccogliere, strappa il sorriso del fine giro. Lui la vita se l’è ricacciata dentro lo stomaco fino a dargli in testa per raccontare del “cane amico di cane” e di una doccia che un giorno si farà ma domani no perché è stanco. Gli ultimi panini sono andati a due ragazzi che parlano inglese ma sono uno asiatico e l’altro nordafricano. Il primo è timido e chiede aiuto all’altro. Ferma i ragazzi e recupera due tramezzini e un sorriso. Per oggi è andata. Domani si ricomincia. 

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