Avvenire di Calabria

I professionisti dell’antimafia danneggiano la lotta alle cosche

Il presidente della Conferenza episcopale calabra interviene sul caso-Montante (e cita Sciascia): «Le cose non vengono tenute in conto per quel che sono, ma per quel che appaiono».

Vincenzo Bertolone *

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Difficile prevedere come andranno a finire le vicende giudiziarie che in Sicilia stanno coinvolgendo i vertici di Confindustria e del precedente governo regionale, accusati di corruzione per aver barattato, secondo i giudici che indagano, nomine in cambio di soldi e favori, dietro il velo del contrasto al crimine organizzato. Ciò che colpisce, della vicenda, è la conferma che ne viene alle parole dello scrittore spagnolo Baltasar Gracián, gesuita: l’apparenza vale più della sostanza. Una regola alla quale si sono evidentemente uniformati nel tempo, parte di quanti sostenevano di combattere la mafia, salvo replicarne ipocrisia e incoerenza.
 
Che la lotta alle cosche avesse generato una sorta di carrierismo, fino a diventare quasi una professione, come osservava Leonardo Sciascia più di trent’anni fa, era cosa già nota. Adesso, probabilmente, è arrivato il momento di prenderne atto definitivamente, per tenere indenne il grano dalla zizzania e non indebolire il cammino di chi le mafie le combatte davvero, lontano dai riflettori e senza interessi personali, ma solo per amore di giustizia o per affermare la verità del Vangelo, come il beato Pino Puglisi. «L’antimafia ha avuto grandi meriti, ma oggi si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato», osserva in un suo libro il giornalista Giacomo Di Girolamo. Che poi aggiunge: «In un circuito autoreferenziale che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori». Col risultato che al fianco dei tanti che operano in buona fede si muove chi ne approfitta per far soldi o consolidare posizioni di potere.
 
Aveva visto bene Nicola Gratteri, oggi a capo della Procura catanzarese, quando tre anni fa in un’intervista ammoniva: «Non si può fare dell’antimafia un mestiere. C’è gente furba che si fa vedere vicino a magistrati e vittime di mafia ma che non ha mai prodotto nulla. Persone che ottengono legittimazione tenendo incontri nelle scuole». E così, qualche mese più tardi, il procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi: «C’è stata forse una certa rincorsa all’attribuzione del carattere di antimafia, all’autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l’antimafia nulla avevano a che vedere».
 
Presa coscienza, però, occorre dimostrare concretezza nel cambio di passo. Tra qualche giorno ricorreranno gli anniversari della morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e della loro scorta, oltre che della beatificazione di don Puglisi e, a luglio, della carneficina di Paolo Borsellino e dei suoi angeli custodi. La loro vita, come quella di tanti servitori dello Stato trucidati, giganteggia sui pigmei che li hanno uccisi ed è patrimonio di bellezza per chiunque voglia cambiare e togliere terreno alle cosche: essere sempre se stessi e compiere fino in fondo e con umiltà il proprio dovere, qualunque cosa accada, per affermare i principi del Vangelo e del bene comune. Difficile a dirsi, forse ancor più a farsi, ma una sfida tanto grande non può che essere così: ardua, impegnativa, irrinunciabile.
 
* Presidente della Conferenza Episcopale Calabra

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