Avvenire di Calabria

Il commento alla Parola della Domenica a cura di don Stefano Ripepi

Il cristiano è libero dalle vanità di questo mondo

Domenica XVIII del Tempo Ordinario - Anno C

Redazione Web

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Avere o essere? Questo dilemma, nel secolo scorso, è stato posto a livello psicologico, esistenziale, come scelta di vita Erich Fromm, quasi che il segreto della felicità della vita degli uomini si potesse cogliere non in ciò che si possiede, ma scoprendo e vivendo la profondità del proprio essere. Lasciando al singolo e all’umanità il compito di scoprire ciò che si è e operare secondo tale coscienza. Questo tipo di domanda ritorna ancora oggi, non potrebbe essere altrimenti, così come è stata posta all’inizio e così come l’ha trattata l’uomo biblico. Possedere! È questa la preoccupazione immediata dell’uomo. Egli vede istintivamente nel possesso delle cose un mezzo per garantirsi dal rischio, dall’illusione mortale! Sempre presenti nell’orizzonte della vita. L’autore del libro del Qoèlet ferma la sua attenzione sul senso del possedere come utilità della vita e come felicità dell’uomo, facendo nello stesso tempo un passo indietro e uno avanti sulla fatica del possedere. Dall’esperienza umana arriva a una sua conclusione e si pone una domanda. Per quanto riguarda la conclusione, sostiene che è vanità (fumo, apparenza, illusione) lavorare con il solo obiettivo di godere, infatti, nessuno può dare la certezza che si riesca a godere tutto quello che con fatica si guadagna: “Perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà lasciare i suoi beni a un altro che non vi ha per nulla faticato”. È fumo lavorare per lasciare agli altri! In questo caso nella riflessione è assente ogni altra intenzione o apertura diversa da quella che vede nella fatica e nel lavoro il godere dell’opera delle proprie mani, in questo modo come ci ricorda la Bibbia si cade direttamente nell’idolatria, creando la divinità del piacere, come se l’obiettivo dell’uomo fosse quello di godere pienamente in questa cita tutto ciò che riesce a guadagnarsi con la fatica. In questa logica il punto di partenza è l’uomo ripiegato su sé stesso, che vede il suo agire non solo legato al momento presente, ma a sé stesso nel momento presente, non c’è apertura al dopo perché non c’è apertura all’altro. L’autore di questo libro non si ferma a quest’amara conclusione, riesce, quasi con la stessa forza della stessa illusione, a porsi la domanda: “Allora quale profitto c’è per l’uomo in tutta la sua fatica, e in tutto l’affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole?”. La risposta, dettata da una esperienza di chiusura in sé stessi senza riferimento all’oltre, è quella deludente di vedere nella fatica, nell’affanno, nel lavoro, una sofferenza fatta di dolori e di preoccupazioni, a cui non è possibile sfuggire se non pensando di godere del momento presente. Legato alla preoccupazione del presente e a “un suo personale senso di giustizia” si presenta a Gesù, che sta salendo verso Gerusalemme, “uno della folla” e gli chiede: “Maestro di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. La risposta di Gesù: “O uomo chi mi ha costituito giudice e mediatore sopra di voi?”, s’impone fortemente come pista di riflessione. In realtà noi sappiamo che Gesù è l’unico mediatore tra noi e Dio, e che lui verrà una seconda volta a giudicare i vivi e i morti, ma nella sua risposta c’è allo stesso tempo un rifiuto e un superamento. Un rifiuto a chi vuole considerare la sua mediazione solo dal punto di vista umano, il tale lo chiama “Maestro” e lo invita ad intervenire per risolvere un problema “materiale”, l’eredità. Un superamento perché nel “Chi” della risposta di Gesù, c’è un sottile invito a fermarsi a prendere coscienza su colui che ha mandato Gesù e sul motivo per cui l’ha inviato. La parabola completa il discorso. Come punto di partenza della riflessione viene posta la comprensione della vita umana libera e indipendente dai “beni posseduti”, poiché questi non hanno la capacità di aggiungere giorni all’esistenza, anzi in qualche modo la ricerca e il pensiero che i beni materiali possono qualificare la vita non fanno altro che svuotarla attraverso le preoccupazioni e i dolori che questi comportano. La parabola oltre che evidenziare il fallimento di chi cerca le ricchezze per sé, apre una porta: “arricchirsi davanti a Dio”. Gesù e la sua parabola si fermano qui, lasciando a chi ascolta il compito di trovare la strada per aprire questa porta. La via viene esplicitata da Paolo nella lettera ai Colossesi, “arricchirsi davanti a Dio” non è solo una questione di fare, ma anche di cercare e di pensare, la vera esistenza nasce da un orientamento nuovo, bisogna rinunciare al proprio mondo per accedere a una dimensione nuova, orientata verso Dio: “Pensate alle cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio, non a quelle della terra”. Per percepire la dimensione vera dell’essere è necessario spogliarsi dell’uomo vecchio e rivestirsi dell’uomo nuovo, dell’uomo che si rinnova dell’immagine di Dio. Questo divenire è possibile se moriamo con Cristo per risorgere con lui: “Voi, infatti, siete morti con Cristo e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio”. L’umanità rinnovata diventa così prolungamento di Cristo, poiché egli è “tutto in tutti”. In questo modo, e solo in questo modo, cioè “possedendo Cristo”, si è quel che si ha.

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