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In occasione della giornata mondiale della creatività e dell’innovazione, domenica scorsa sulle pagine del settimanale "Avvenire di Calabria", in edicola con "Avvenire" abbiamo esplorato il futuro della comunicazione umana nell’era dell’intelligenza artificiale con Massimiliano Padula. Docente di Sociologia della Pontificia Università Lateranense, è il sociologo che meglio di ogni altro sta trattando i temi dell’innovazione legata all’Intelligenza artificiale.
Per leggere il presente e comprendere l’umano alla luce dei fatti che accadono è indispensabile rivolgersi a un sociologo.
Massimiliano Padula, a nostro avviso, è l’intellettuale che meglio di ogni altro sta trattando i temi dell’innovazione legata all’Intelligenza artificiale, riportandoli in chiave sociologica. Per questo ci siamo rivolti proprio al docente di Sociologia della Pontificia Università Lateranense.
Preferisco che ad immaginare siano narratori e sceneggiatori. Quando rifletto sul futuro dell’intelligenza artificiale penso al Frankenstein di Mary Shelley, ai racconti di Isaac Asimov o alla sterminata filmografia distopica del secolo scorso. Molte di queste immaginazioni non si sono concretizzate perché l’evoluzione reale della tecnologia ha seguito criteri disciplinati, sistematici, dimostrabili e, quindi, prevedibili.
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Non succede spesso, infatti, di avere tra le mani un dispositivo così sorprendente da poter affermare: «non me lo sarei mai immaginato!». L’immaginazione, dunque, si converte in auspici. Auspico che l’AI nella comunicazione possa migliorare l’accessibilità e l’efficienza. Ad esempio, che chatbot e assistenti virtuali possano essere sempre più in grado fornire risposte migliori alle richieste di informazioni e di assistenza. Così come auspico che i servizi di traduzione basati sull’AI possano abbattere barriere linguistiche e culturali e facilitare la comunicazione tra le persone.
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Infine, auspico che la comunicazione mediata dall’AI possa, attraverso la capacità di analizzare e interpretare grandi quantità di dati, fornire approfondimenti che possano aiutare persone e organizzazioni a prendere decisioni più informate, critiche, dirette alla promozione del bene, della pace e del rispetto della dignità umana.
È in corso da diversi anni una despazializzazione e una detemporalizzazione delle redazioni giornalistiche. Molti media hanno già adottato la logica “digital first”, ovvero strategie che, attraverso il digitale, possano potenziare, trasformare e perfino stravolgere una professione che fa fatica a mettersi in discussione. Naturalmente il cambiamento spaventa, non solo perché è ignoto, ma perché potrebbe mettere in discussione privilegi e status quo. Pertanto, vanno certamente bene le commissioni governative Ai per l’informazione, così come eventuali provvedimenti legislativi in merito. Ma, accanto alle limitazioni, credo sia fondamentale un’efficace coscientizzazione della portata culturale (e non solo tecnica) dell’intelligenza artificiale generativa che non è un sostitutivo, ma un integrativo di un mestiere – quello giornalistico – già messo a dura prova (perché impreparato) dai Social media.
Lo spero vivamente. Ogni innovazione tecnologica determina modificazioni antropologiche e socio-culturali e, quindi, anche educative. Credo che le funzionalità dell’AI possano favorire i contesti educativi marginali e diseguali come le classi con alunni con la disabilità o multilingue. Sistemi di riconoscimento vocale o tools di traduzione, possono colmare i divari e rendere la formazione più inclusiva e orizzontale.
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L’intelligenza artificiale può, inoltre, consentire agli insegnanti di estendere le pratiche formative anche fuori dai tempi e dagli spazi della classe, sviluppando risorse rispondenti alle conoscenze e alle esperienze dei singoli studenti attraverso una personalizzazione dei programmi di studio. Questo non vuole dire lavorare di più, ma lavorare (molto) meglio.
L’entusiasmo per le innovazioni scientifiche è spesso temperato dalle preoccupazioni per i rischi e le conseguenze indesiderate. È innegabile che l’AI (come tutti i processi di digitalizzazione) favorisce la mercificazione dei dati che oggi – sembra – siano diventati il bene primario di profitto. Questo implica una riflessione etica difronte alle possibili minacce per la privacy individuale e le libertà civili, soprattutto per le minoranze che potrebbero essere soggette a maggiore controllo e sorveglianza. E quindi ulteriormente discriminate e strumentalizzate.
È innegabile che l’intelligenza artificiale risente del cosiddetto “pregiudizio antropocentrico” che spinge gli individui a non accettare il coinvolgimento dell’AI in compiti tipicamente umani. Figuriamoci se dall’umano si passa al trascendente! A parte gli scherzi, io non credo che la prassi pastorale sarà particolarmente sconvolta. Evangelizzare e catechetizzare con l’AI, a me sembrano più slogan che dirimenti necessità della comunità ecclesiale.
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La sfida principale la spiega papa Francesco nell’ultimo Messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali: comprendere l’intelligenza artificiale significa «fare un salto di qualità per essere all’altezza di una società complessa, pluralista, multireligiosa e multiculturale. Spetta a noi – continua il Pontefice “decidere se diventare cibo per gli algoritmi oppure nutrire di libertà il nostro cuore, senza il quale non si cresce nella sapienza».
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