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Io resto a casa. Una studentessa: «Fermarsi per responsabilità»

Redazione Web

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di Gaia Myriam Benedetto * - L’emergenza-Coronavirus che stiamo vivendo ha stravolto il nostro modo di esistere (ex-sistere) in maniera fulminea, costringendoci, tra le altre cose, a riflettere attentamente su ogni nostra azione e a soppesare ogni nostro atto, in quanto, di colpo, ci è parso evidente quanto ogni nostra scelta sia carica di responsabilità. Questa “nuova” prospettiva ha fatto sì che balenasse di fronte a noi quanto il nostro agire (anche il più innocente e quotidiano) sia determinante non solo per noi, ma anche nei confronti degli altri e, quindi, quanto la responsabilità permei, a volte silenziosamente e in maniera implicita, la nostra vita. Come tutte le situazioni-limite fanno, anche questa emergenza ha messo in luce tutte le criticità e le incoerenze del nostro atteggiamento responsabile (e responsabile fino a ieri in modo scontato e irriflesso, e perciò fallace). L’emergenza-Coronavirus, in poche parole, ci ha chiamati a mettere in gioco il nostro essere, il nostro modo di stare al mondo, la nostra capacità di essere responsabili (e cioè, in primo luogo, di rispondere delle nostre azioni) e a confrontarci con le nostre tendenze all’irresponsabilità.

Il termine “responsabilità” è un termine molto ricco e dotato di una intrinseca saggezza. Già una prima analisi etimologica lo dimostra. Tuttavia, tra le varie radici da cui si può fare derivare tale parola (“respondere”, “spondere”, “responsare”, “res-rem ponderare”), mi piacerebbe analizzare quella che collega il termine “responsabilità” con il verbo latino “pondero”, che significa “saper valutare situazioni particolari”, in quanto si è capaci di “pesare” come sui piatti della bilancia e quindi giudicare in modo appropriato le situazioni concrete (attivando, per così dire, la phronesis aristotelica, saggezza pratica in grado di calcolare, mediante l’analisi del fine e quindi dell’oggetto da perseguire, il mezzo migliore per raggiungere tale oggetto in modo eccellente e in una particolare situazione data). Questa declinazione della responsabilità permette di sottolineare come l’attenzione al contesto particolare possa essere importante quanto (se non di più di) i principi astratti e universali. Proprio quest’ultimo aspetto (saper valutare in modo appropriato ogni particolare, ed il complesso di tali particolari, confrontandosi anche con i principi generali, ma senza limitarsi a essi) è uno dei tratti che rendono di per sé “saggia” la responsabilità.

Molti sono i comportamenti irresponsabili che mi vengono in mente e che tradiscono in vari modi l’intrinseca saggezza presente nel termine “responsabilità” (penso ad alcune vie intraprese da altre nazioni, ad un certo tipo di sfruttamento mediatico da parte di alcuni partiti politici, a casi di negazionismo per ignoranza, spavalderia o noncuranza sfociati in tentativi di viaggi-vacanza per godere di luoghi turistici momentaneamente non affollati o di aperitivi con amici per mostrare che il virus non ci fa paura e che il resto del mondo sta solo esagerando). Io, invece, vorrei analizzare l’evento forse più ingombrante a livello mediatico, più massiccio in quanto a diffusione e probabilmente più naturale ed insieme più colpevole e responsabile della diffusione del virus in Italia: il ritorno a casa dei fuorisede (soprattutto studenti, ma anche lavoratori). Al momento della decisione quelli che erano “su” nelle zone rosse e quelli che li attendevano giù al Sud (per semplificare, figli e genitori) hanno dovuto valutare se fosse più saggio non spostarsi per non diffondere l’epidemia o tornare a casa per sfuggirvi. La questione era quasi un conflitto morale: adombrare il senso di responsabilità prospettica, verso il futuro e verso l’alterità, (derivante da “spondeo”) o far tacere la responsabilità genitoriale di “rispondere di” i propri figli (derivante da “respondeo”)? Aristotele sarebbe stato molto chiaro e sicuro di fronte a tale difficoltà: per risolversi in una scelta ciò che è necessario è usare la phronesis, deliberare, quasi in modo utilitaristico, considerando tutti i mezzi utili per raggiungere il fine dato dal valore universale (la salute, in questo caso) e scegliendo, infine, il più efficace, mettendo tra parentesi tutti quei principi validi in modo assoluto, ma non essenziali in questa contingenza. Posto ciò, mi sembra irresponsabile il rientro di molti fuorisede (anche se una riflessione del genere risulta ancora troppo generale per essere davvero pratica) in quanto mi pare che molti valori siano stati anteposti al dettame di quella ragione calcolante che avrebbe reso la scelta saggia. Hanno mal ponderato (o forse semplicemente dato un peso diverso) coloro che per raggiungere il fine-salute hanno deciso di prendere un mezzo pubblico per raggiungere un luogo “pulito” andando via da uno “infetto”, non hanno anteposto la propria salute alla paura di rimanere isolati, non hanno anteposto la salute degli altri alla volontà di riabbracciare i propri cari.

Come ho già detto, una tale indagine risulta ancora troppo generale per poter essere pratica, il mio quindi non è tanto un giudizio nei confronti di chi ha fatto questa scelta, ma vuole essere un’analisi “ponderata” della scelta che tutti siamo stati chiamati a realizzare in questi giorni: muoversi o “stare a casa” (anche se casa non dovesse voler dire in questo caso residenza)? Mi sembra che ciò che renda davvero saggia la responsabilità sia proprio questo essere “phronetica” e che questo suo tratto comprenda in qualche modo tutti gli altri, tanto la propensione verso il futuro quanto la cura della relazionalità, in quanto ogni particolare rientra nell’analisi attuata dalla saggezza pratica. Mi piacerebbe concludere con le parole di Miano, che mi sembrano individuare bene sia quanto ciascuno sia stato chiamato (ed è chiamato anche quando non è così evidente) a mettersi in gioco, sia quanto la responsabilità di ogni soggetto debba fare i conti con la concretezza, la contingenza, il contesto, la particolarità delle esperienze: «L’etica del Novecento si costruisce tutta intorno alla necessità della scelta, una scelta che non è però scelta tra i valori, quasi questi fossero disponibili e già dati in una gamma tanto varia quanto definita in partenza, si tratta piuttosto di una decisione che per ogni soggetto riguarda in toto la pienezza della sua condizione e che investe tutto l’uomo».

* Studentessa universitaria

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