
Autismo, in piazza per i diritti e la continuità terapeutica
Un sit-in per richiamare l’attenzione pubblica e istituzionale sul diritto alla salute dei minori con
«Come una vita parallela». La mamma di un ragazzo autistico si racconta. Un cammino molto tortuoso, ma ricco di gioie. Spesso ardue come «scalare a piedi nudi il K2». Lo abbiamo ripercorso con Adriana Comi: per farlo bisogna tornare a 30 anni fa quando l’autismo era “oscuro”.
Adriana Comi è la mamma di un ragazzo autistico ormai trentenne. Nel ripercorrere la sua esperienza genitoriale occorre fare un salto nel tempo a quando l’autismo era “oscuro” agli occhi di tutti.
Ci siamo accorti sin da piccolissimo dei disturbi di nostro figlio: alla terza diagnosi abbiamo scoperto il suo autismo. Una forma molto grave; da bambino si presentava con forme di aggressività e iperattività accentuata. Se è vero che l’autismo non si cura, se si interviene precocemente si possono fare notevoli passi in avanti.
Trentaquattro anni fa l’autismo era un fenomeno sconosciuto anche agli addetti ai lavori. Il primo e unico consiglio che ci hanno dato era la psicoterapia, ipotesi che abbiamo scartato a priori. Ci siamo, quindi, dovuti attrezzare in casa poiché non esisteva -al tempo - nessuna struttura neanche privata specializzata. Le difficoltà sono state tante, a tal punto da vivere “una vita parallela” per organizzare un programma di accompagnamento: i risultati ottenuti sono sotto gli occhi di tutti. Mio figlio è sereno, particolarmente sensibile. Aggiungo che ci dà una dimostrazione giornaliera della sua personalità ironica e affettuosa.
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Sì, è difficile entrare in relazione con loro. Ma quando ci riesci è bellissimo. Le svelo una cosa: i libri che più mi hanno aiutato a “costruire” questa relazione con mio figlio sono quelli scritti proprio dalle persone autistiche ad alto funzionamento. Amano in modo incondizionato e vedere un loro passo in avanti è come scalare a piedi nudi il K2. E per noi genitori è un’emozione bellissima.
Le opportunità sono quasi tutti di carattere privato. Ad esempio, anche grazie a un centro diurno privato, mio figlio ha fatto progressi notevoli in diversi ambiti. Possiamo dire che solo le associazioni garantiscono i diritti dei nostri figli: sono loro a proporre laboratori, sono loro a portarli in pizzeria o a mare. I momenti di pura felicità dei nostri ragazzi “gravano” spesso solo sulle spalle di volontari.
I primi mesi sono stati durissimi. Tutte le associazioni hanno dovuto sospendere tutte le attività. Ci siamo sentiti abbandonati.
Aldilà delle videochiamate dei volontari, nessuno ha pensato ai nostri ragazzi. Parlo delle Politiche sociali. Capisco il tempo emergenziale che ha scombussolato tutti i processi comunicativi. Ma in due anni, posso registrare la totale assenza di condivisione tra le Istituzioni e le famiglie. L’isolamento, per chi ha difficoltà a intessere relazioni, assume forme molto più gravi. C’è bisogno di una cura comunitaria affinché nessuno resti indietro.
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Auspico che i nostri figli vengano tenuti in considerazione. Ma davvero! Se parliamo di sanità, anche i più piccoli con disturbi dello spettro autistico vedono negate importanti cure che potrebbero migliorare le loro condizioni di vita. Tutto questo non può essere “messo da parte” perché non ci sono soldi. Accanto alla materia sanitaria, va valutata anche quella sociale. Su questo versante, l’esperienza vissuta durante la pandemia è sotto gli occhi di tutti.
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