Avvenire di Calabria

L'analisi di Daniele Maria Cananzi sull'attuale contesto ancora segnato dall'emergenza sanitaria

La politica da riscoprire: ha dimensione sociale ed è spirito della città

«Se una cosa questa pandemia avrebbe dovuto insegnare è un'etica della comunità che sembrava fare i primi passi all'inizio dell'emergenza»

di Daniele M. Cananzi

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Nel tempo in cui l’emergenza pandemica mette in questione gli equilibri dei sistemi che innervano la società, quello economico, giuridico, religioso ecc., la politica da un lato viene riscoperta nella sua fondamentalità sociale – invocata ed evocata quale sostanza del gruppo collettivo ma anche quale barriera e difesa verso la/le minacce che lo mettono in pericolo – dall’altro si scopre fragile nella sua azione, debole nei suoi intendimenti, inconsistente nella possibilità di intervento spesso lento, inefficace, inutile.


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Un quadro che potrebbe sembrare impietoso – nonostante non manchino e non siano mancate bracciate in senso inverso – rispetto alla nuotata nelle acque turbolente che la pandemia non ha reso meno problematiche ma ha evidenziato in tutto il loro periglio. E la cosa non migliora se dal “macro” passiamo al “micro” e dal politico in generale zoomiamo verso la città, archetipo del gruppo politico.

Quali regole di convivenza?

Non una specifica città ma dimensione del politico, previlegiata anche perché consente di pensarne le categorie in formato quotidiano, comune, domestico; consente di ripensarne i fondamentali nell’epoca in cui si prosegue a ripetere il mantra del superamento dei fondamentali, in un mondo che non è più né il kosmos della classicità né il globo della cristianità ma un affastellarsi di mondi differenti in cerca di regole di convivenza, in cerca di una filosofia regolativa che abbia natura quanto più possibile contrattuale, non universale né universalizzabile.

E cosa vediamo della Città? Che le bracciate si fanno spesso più affannose perché l’acqua rimane più pesante; liquido che si intorbida di desideri e bisogni spesso non corrispondenti; si inquina dalle tossine non solo dell’illegalità e del crimine ma di quelle forse ancora più dannose perché insidiose dell’incompetenza, del pressapochismo, della mala gestione. Lì dove si legge città ma non si intende civitas, si dice città ma non si pensa più alla communitas.

Un'etica della comunità

Se una cosa questa pandemia avrebbe dovuto insegnare, è proprio un’etica della comunità, quella che sembrava fare i primi passi all’inizio dell’emergenza e che si è inabissata man mano che l’eccezione è ridiventata regola del contratto sociale: il contratto nel quale il gruppo è fatto di elementi ma non necessariamente con la caratura delle persone. Elementi operativi e funzionali, fungibili, che la politica intende usare ma non guidare, impiegare ma non servire, come pure dovrebbe essere. Cessata la dimensione “comunale” della communitas, rimane solo quella “individuale” dell’immunitas; la città diventa luogo-non luogo dell’agire dell’individuo preso nel suo isolamento dagli altri individui: soggetto desiderante il cui desiderio acquista i tratti narcisistici dell’autosoddisfacimento dei bisogni.


PER APPROFONDIRE: Cittadini e politica, insieme per il bene comune: missione possibile


Non più insieme all’altro (communitas) perché parte di una storia personale che lo fa nascere già nella rete delle relazioni, l’individuo è distanziato dall’altro (immunitas) perché proiettato al soddisfacimento dei propri bisogni. In questo la politica gioca un ruolo importante perché finisce per incoraggiarlo verso la legge del bisogno e renderlo assoggettato a sé. Potrebbe sembrare irrealistico l’appello alla riscoperta della politica come spirito della comunità, come fulcro della città, se non fosse proprio questa la lezione che la pandemia ci ha impartito, quella che avremmo dovuto comprendere per poter avere acque più tranquille dove le bracciate sono un andare avanti e non uno statico stare a galla.

*Istituto Superiore Europeo di Studi Politici

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