«Sporcarsi le mani è non avere paura di educare». Don Giacomo Panizza non usa mezzi termini, non è il suo stile d’altronde, nel rispondere a uno dei tanti reggini accorsi alla libreria “Paoline” per vivere un momento di pedagogia collettiva. Sì, perché il coraggio è un atto collettivo come saggiamente conclude “Cattivi Maestri”, il libro del sacerdote bresciano, ma calabrese – lametino per l’esattezza – dal 1976. Anno in cui conobbe don Italo Calabrò e quell’incontro nel chiostro della curia arcivescovile di Reggio Calabria, gli cambiò la vita.
«Sostenevano che a Lamezia la mafia non esistesse – rivela don Giacomo – che era solo una cosa da film». Eppure una volta avviata la prima azienda con i diversamente abili andarono a cercargli il “pizzo”. Fu così che don Giacomo conobbe la ‘ndrangheta. Quella cruenta del Torcasio che non digerirono la scelta di utilizzare una delle case a loro confiscate come sede di Progetto Sud, l’organizzazione di don Panizza, e lo minacciarono di morte. Ma anche quella dei colletti bianchi, più paziente: quella che ingenera «muri di gomma» insormontabili.
Così la mafia insegna, da l’esempio. Allora ciò che serve realmente è una sfida educativa a quella pedagogia mafiosa. E proprio dai cattivi maestri riparte un’esperienza ben orchestrata da Pasquale Neri, portavoce del Forum del Terzo Settore. Gli interventi di Sara Bottari, docente e presidente della fondazione “La Provvidenza”; Valentino Scordino, docente e socio fondatore dell’Associazione “Maestri di Speranza” e Amelia Stellino, docente dell’Istituto Superiore di Formazione Politico – Sociale “Monsignor Antonio Lanza” sono perfettamente sincroni con il messaggio di don Giacomo.
Sembra di essere in famiglia o per meglio dire in classe. In quelle aule scolastiche dove un maestro è riuscito con la sua azione a «far alzare lo sguardo» ai propri alunni. In fondo per sconfiggere la cultura mafiosa non servono eroi, ma «riuscire insieme: questa è politica. È cosa di tutti, non “cosa nostra”». Così scrive don Giacomo nel suo libro. Un tentativo, quello di vincere la sfida dell’educazione, a cui nessuno può esimersi.
«Bisogna giocarci una via d’uscita», prosegue il sacerdote che spiega come ha compreso sulla propria pelle i tentativi violenti delle mafie di impartire le proprie lezioni. «Quando ci lasciamo impaurire è allora che abbiamo “imparato”». Ma come non avere paura? Don Giacomo non ha dubbi: «Stando insieme». E su questo punto, sulla rigenerazione quotidiana propria del rapporto docente–alunno, che parla all’uditorio. Lanciando una provocazione: «Perché a Reggio Calabria non c’è l’antiracket?». Nella sala cala il gelo. Il silenzio guaudioso di un incontro lascia spazio a quello della riflessione. Di una città narcotizzata.
È sempre per don Panizza ha ripristinare l’idillio con una parola di speranza (ne userà tante soprattutto “in prestito” da San Paolo): «La Calabria è ricca di persone che “non tornano indietro”, basta trovarle».
C’è bisogno di storie positive e questo “Cattivi Maestri” ne è una raccolta formidabile perché coniuga la missionarietà all’attenzione pedagogica di una comunità che si è sentita tradita da chi doveva custodirne i valori. «Noi non siamo affiliati, ma stiamo comunque insieme» spiega il sacerdote quando racconta delle udienze accanto a quanti decidono di denunciare il pizzo. Di fronte al muro (umano) dell’omertà c’è la trasparenza di un’azione che educa. «Ci hanno messo 25 anni a Lamezia per dire che la mafia esiste, dal 1976 al 2001. Adesso, però, qualcosa con l’aiuto di tutti sta cambiando».