Avvenire di Calabria

Amos Martino, docente ed educatore di Azione Cattolica, approfondisce il tema dell'attenzione pedagogica

L’analisi. L’educatore getta le reti e testimonia la fede

Redazione Web

Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram
Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram

di Amos Martino * - «Chi si ferma si incontra» è una citazione da Non ora non qui di Erri De Luca, autore noto e saccheggiato in più di un’occasione, considerata la sua filologia e l’interesse per i testi veterotestamentari. Via d’uscita elegante da lunghe discussioni su titoli per liturgie, campi o magliette, questa frase mi sta a cuore perché è sintesi sincera della mia esperienza di campi estivi. Si tratta esattamente di questo, in fondo: fermarsi e incontrarsi.

Il primo verbo è la premessa. Ed è anche la parte più complessa: perché ci vuole entusiasmo per fermarsi. La condizione eccezionale del campo è una parentesi ritagliata al quotidiano, che fa della stasi una rincorsa, un respiro prima del salto in alto.

Fermarsi significa riprendersi tempo – «tempus […] collige et serva» raccomandava Seneca a Lucilio – e dargli nuovo senso nel servizio a sé stessi e al prossimo. È un invito che facciamo nostro e che volentieri condividiamo, soprattutto a quanti appaiono timorosi a un passo dalla scommessa. Fermarsi per incontrarsi. Incontrarsi è fine e ricompensa della sosta. Incontrare Cristo, prima di tutto; una proposta che è un’attesa, un esercizio di audacia e talvolta anche l’esitazione di un lungo cammino. Ai campi estivi tutto – direbbe Coelho – cospira perché questo incontro si realizzi. Le residenze estive si trasformano in case in cui celebrare fraternità, luoghi dell’anima e spazi concreti: la cappella,

il bosco, il cielo stellato. E in questi scenari avvengono altri incontri che sono destinati a lasciare un segno indelebile: diventano legami. La fatica intensa e la gioia sono il lievito di relazioni che nascono con un seme d’eternità.

Tutto questo lascia sbalorditi ed è per questa ragione che nel borsone di chi partecipa a un campo c’è bisogno di spazio per la meraviglia. Capita che gli anni possano condurre all’esercizio meccanico di una presunta competenza: un saper fare che è senz’altro necessario ma che non può essere sufficiente per chi di quel campo ha diretta responsabilità. Vivere un campo da educatore è farsi docile matita per lasciare spazio alla creatività di Dio. Sotto questa prospettiva, avere risposte non serve. L’educatore è persona di ricerca: studia, dubita; raramente dà risposte definitive. Con la sua imperfezione è veicolo di grazia per i suoi compagni di strada. Con la sua fede, getta le reti una volta ancora.

* educatore giovani della parrocchia S. M. della Candelora

Articoli Correlati