Avvenire di Calabria

A 42 anni dall'entrata in vigore della legge sui malati psichiatrici, proponiamo un focus sul servizio ecclesiale che, ancora oggi, garantisce assistenza ai bisognosi

Legge Basaglia, manicomi chiusi. Don Iachino racconta quegli anni

Il sacerdote reggino svela i retroscena delle lotte per la chiusura della struttura-lager sita a Modena. Tra i protagonisti don Italo Calabrò.

Davide Imeneo e Federico Minniti

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La sacrestia della chiesetta del Carmine è scarna, semplice, come il sorriso di monsignor Antonino Iachino che ci accoglie. Tre sedie e un cimelio: “Oltre l’emarginazione”, un volume che il sacerdote custodisce tra le sue mani. È una pubblicazione della Federazione provinciale di Reggio Calabria del Movi, il Movimento di volontariato italiano e riporta l’impegno per la chiusura dell’ospedale psichiatrico di Reggio Calabria. «Queste pagine raccontano la sfida della Chiesa reggina per la promozione umana», ci dice. Un dossier «scomodo», rivela don Iachino, che al tempo pose l’arcidiocesi «in contestazione» verso la “lentezza” di alcune autorità del tempo. Il motivo? Presto detto: si riportava, con minuzioso acume, la cronologia dei fatti – giorno dopo giorno – dall’approvazione del dispositivo 180, a tutti noto come “Legge Basaglia”, il 13 maggio del 1978 sino alle lotte per chiudere l’ospedale–lager di Modena avvenuto soltanto nel 1992 poiché la struttura (che poi lasciò posto alla Scuola allievi dell’Arma dei Carabinieri) era stata definita “inagibile”. Un tempo di servizio, quindi, ma anche di lotte per difendere i diritti di quei malati che per decenni erano stati privati dei loro diritti umani. Una Chiesa «in uscita», per parafrasare papa Francesco, che si entusiasmava grazie alla grande forza d’animo di un laicato maturo e forgiato al ‘68 reggino che, a differenza di altre città, si ripercosse in un grandissimo impegno cattolico nella società civile.

Ripercorriamo questa storia. Da dove inizia l’impegno della Chiesa reggina a favore dei malati psichiatrici?

Dietro a tutto c’è un volontariato autentico, vero. Parliamo di «promozione umana» cosa ben diversa da quello assistenzialistico che, in realtà, è dannoso per i poveri stessi poiché non migliora mai la loro condizione. Si tratta di un motore trainante, nato dal convegno ecclesiale di Roma del 1976. Sarebbe corretto definirlo come «volontariato politico», ossia che si fa carico della collettività. Nacque con un gruppo di giovani, non solo presente sul territorio, ma anche molto «provocatorio».

Una «provocazione sociale» che vuole fare uscire i “pazzi” dall’ospedale psichiatrico del tempo.

Abbiamo lavorato sempre in continuità, dal 1975 in poi. Uno dei grandi motivatori fu il professore Mario Scarcella, direttore dell’ospedale psichiatrico, e antesignano degli intendimenti di Basaglia. Fu il tempo della presenza stabile dei volontari dentro il manicomio che all’epoca ospitava circa 700 degenti. Un coinvolgimento, appunto voluto da Scarcella, che prevedeva momenti di festa, proiezioni cinematrografiche, rappresentazioni teatrali con alcuni ricoverati nelle vesti di attori e ancora gite periodiche e assemblee dei pazienti, senza dimenticare i Capodanno festeggiati con i volontari della Caritas.

Da questa esperienza “dentro le mura”, nasce poi l’idea dei primi soggiorni sociali.

Era luglio 1976. La diocesi mise a disposizione la Casa San Paolo di Cucullaro. Furono le prime esperienze di convivenza, secondo uno stile familiare, tra volontari e pazienti psichiatrici. Un percorso ininterrotto che ancora oggi esiste ed è molto prezioso per la Chiesa reggina.

Fu allora che nacque l’idea delle case–famiglie?

Posso dire che fu un’inevitabile conseguenza. Dopo l’approvazione della legge Basaglia, furono ripetute le denunce da parte della Caritas sull’inadeguato funzionamento dei Centri di Igiene Mentale e sulla mancata attivazione delle strutture alternative. Nel 1980, neanche a dirlo, fu don Italo Calabrò ad avviare la prima sperimentale esperienza con il “Rifugio di Sebastiano”, in onore di uno dei primi ospiti dei locali della Curia arcivescovile, adibiti a casa– famiglia.

Anche quella una grande provocazione.

Da cui scaturirono nell’ottobre 1981 la casa–alloggio “Ospitalità”, sempre nel vescovado, destinato a una decina di uomini, e poi, nel novembre dello stesso anno, nacque “Cassibile”, nella frazione Acciarello di Villa San Giovanni, con 12 donne di cui si presero cura, da sempre sino a oggi, le suore.

Qualcuno era persino contrario a queste iniziative.

Come Caritas non accettammo mai di mutuare il metodo dell’Ospedale Psichiatrico. Non furono assunti infermieri, né psichiatri, ma operatori che condividevano l’idea di fondo: ricreare lo spirito familiare per questi uomini e queste donne. Così ciascuno di loro era responsabile della propria casa. Ricordo che il dottor Quattrone, psichiatra e direttore del manicomio, mi disse: «Il vero pazzo, qua, sei tu» quando nel maggio del 1987 nacque “Casa Corigliano”, alloggio per 9 pazienti, avviato senza alcun sostegno pubblico. Ma, col tempo, il professionista reggino, divenuto mio parrocchiano, cambiò idea.

Come?

Un giorno mi chiese: «Ma poi che fine hanno fatto quei pazienti?». Gli dissi: «Vieni, ti faccio vedere». Lo portai a “Casa Corigliano”. Vide le stanze di quegli uomini, in ordine e curate nella pulizia da loro stessi. E poi li vide mentre apparecchiavano e sparecchiavano. Poi lo persi di vista. Lo ritrovai sulle scale dell’ingresso, stava piangendo. Era profondamente commosso.

Ci poteva essere una dimensione diversa, più umana, rispetto all’ospedale pischiatrico. Che ricordo ha di quei padiglioni?

Ricordo quando accompagnai per la prima volta monsignor Mondello, appena insediatosi come arcivescovo di Reggio Calabria – Bova, all’ospedale psichiatrico. Dovevo fargli vedere le nostre case, ma prima pensai di fargli conoscere da dove venivano quei malati. Non potrò mai dimenticare i suoi occhi. Uscendo mi disse: «Oggi mi vergogno di essere un uomo».

La Chiesa reggina giocò un ruolo fondamentale per la deospedalizzazione dei malati psichiatrici.

Ci fu un grande impegno corale. Come dimenticare, a esempio, la grande bontà d’animo di don Lillo Altomonte, parroco di Modena, che agevolò le “passeggiate” dei degenti tra le vie del quartiere di cui diventarono, a pieno titolo, veri e propri cittadini. E ancora le parrocchie di Pellaro, San Leo e Lazzaro che fecero sperimentare ai pazienti, le domeniche in famiglia. Insomma, il “problema dei pazzi” divenne per tantissimi anni, il problema dei cattolici reggini.

Come è iniziato tutto. La carità disarmante del vescovo Ferro e l'amore «straziante» di don Italo Calabrò.

«Il volontariato “critico” che ha portato alle esperienze profondissime di servizio che tutt’ora sono tangibili nella nostra città è nato e si è sviluppato attorno a due figure della Chiesa reggina: il vescovo dei poveri, monsignor Giovanni Ferro, e il sacerdote– visionario, don Italo Calabrò». Monsignor Antonino Iachino, direttore della Caritas diocesana di Reggio Calabria dal 1985 al 2007, vive un momento di commozione nel ricordare queste due personalità che hanno forgiato una generazione di cattolici impegnati nel servizio agli ultimi.

Monsignor Ferro si pose, nei confronti dell’Ospedale psichiatrico, con lo stesso animo che lo guidava nella sua azione pastorale, senza alcuna preclusione. «Era fatto così – spiega Iachino – lui, appena vedeva un povero, si fermava. Non aveva mai fretta; e non è un modo di dire: spesso usciva con la sua macchina per andare a “recuperare” chi viveva una situazione di disagio. E li portava nel cortile della Curia. Quanti abitanti che recuperavano i loro diritti di cittadinanza grazie al vescovo Ferro che poi li affidava proprio a don Calabrò!».

Monsignor Iachino, poi, tratteggia la personalità del sacerdote reggino: «Pensava risposte». Questo era il tarlo di don Italo Calabrò. «Non si soffermava a evidenziare la presenza di un problema, – spiega Iachino – ma strutturava dei veri e propri progetti, che immaginava grazie al sostegno dei volontari e di quanti, come il professore Scarcella, ne condividevano l’indole».

Don Calabrò, infatti, rispetto ai pazienti psichiatrici non solo si pose il problema di “liberarli” dall’ospedale–lager, ma «di capire come curarli». Per fare questo fece specializzare un gruppo di volontari in questo aspetto: «Niente doveva essere lasciato al caso», sottolinea don Iachino.

Anche perché don Calabrò “soffriva” quella condizione disumana. Persone “zombizzate” che finalmente con la legge Basaglia, ritenuta «provvidenziale» dallo stesso Calabrò, potevano essere riconsiderate come degli esseri umani con una loro dignità.

Un sacerdote, un uomo che viveva sulla propria vita, sulla propria pelle, la vicenda di quei “poveri pazzi”. «Si sentiva “impreparato” – svela Iachino – percepiva una difficoltà enorme, si intristiva. Visse momenti delicati, cadde in depressione per diversi mesi, soffriva interiormente tantissimo». A dargli fiducia erano i volontari: «Don Calabrò si entusiasmava a vederli all’opera – conclude monsignor Iachino – li osservava, per ore e ore, commosso. Stava in disparte. Era, in quei momenti, l’uomo più felice del mondo».

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