Avvenire di Calabria

Lo sguardo di una psicologa di comunità sulla dimensione ecclesiale delle relazioni umane

Marta: «Crescente bisogno di comunità, ma serve azione sinergica»

Federico Minniti

Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram
Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram

Lo sguardo di una psicologa di comunità sulla dimensione ecclesiale delle relazioni umane. Elena Marta, docente della Cattolica di Milano, è intervenuta al Convegno pastorale diocesano di Reggio Calabria.

Generare relazioni per rendere feconda l’opera della Chiesa sul territorio.
Occorre partire, innanzitutto, da una costazione: le persone – in questo preciso momento storico – percepiscono un forte bisogno di comunità, probabilmente anche più rispetto al recente passato. Riconoscere questo, intanto, è un punto di partenza davvero importante: infatti, siamo portati a pensare che la gente non voglia più partecipare né voglia appartenere a qualcosa di già predefinito. La tendenza, in realtà, è l’esatto opposto.

 
La solitudine dei numeri primi, quindi, è solo un sentire superficiale?
Bisogna approfondire «cosa» voglia dire tutto questo: uno degli aspetti importanti è proprio quello di favorire la partecipazione delle persone nella scelta delle strategie che la comunità si da nell’incontro concreto con l’altro. Una Chiesa per essere generativa non può non pensare di costruire legami forti al proprio interno, ma che siano proiettate anche con realtà “altre” che siano presenti sul territorio, nonché coltivare un rapporto di dialogo costante anche con le Istituzioni. In sintesi: per rispondere bene al bisogno di comunità serve un’azione sinergica di quanti hanno la responsabilità sul Bene comune. Ovviamente serve mettere “in conto” che vivere in una comunità non sempre e solo “armonia”: la base dello stare insieme deve transitare dalla consapevolezza che l’altro può essere differente da me.
 
Spesso questo bisogno di comunità si trasferisce nella ricerca di sviluppare una “vita digitale”, come sui social network.
I social network sono uno strumento, pertanto necessitano di un’educazione all’uso. Inutile immaginare una “retromarcia” rispetto all’innovazione tecnologica: quello che possiamo fare è aiutare a usare questi strumenti in modo adeguato. Penso che ci si può educare a stare «nell’arena sociale» con questi mezzi seppur recuperando valori come la condivisione e il rispetto.
 
Eppure i social rappresentano spesso la “pancia” del Paese, da dove si propaga il linguaggio d’odio che sviluppa tensioni sociali laceranti.
Questa valutazione va ampliata per leggere il fenomeno: è l’indicatore chiaro di dove il nostro Paese sia arrivato. Invece di un confronto prevale la paura e la diffidenza nei confronti dell’altro; quello che si innesca è un meccanismo distruttivo che è sinonimo di un’identità molto debole.
 
Quando si pensa ai social, il primo pensiero va ai “millenials” e ad alcune derive pericolese nel loro percorso di crescita.
Gli adulti hanno una responsabilità evidente e corposa su quanto emerge quotidianamente. Nessuna generazione può farcela da sola: perché i ragazzi di oggi non sono stimolati a recepire le tradizioni e i valori per poterli re–interpretare e innovare secondo la propria indole? Genitori, insegnanti ed educatori hanno proprio questo dovere: devono trasmettere questo bagaglio valoriale attraverso una testimonianza credibile che lascia liberi i millenials di metterci del loro. Perché, diciamocelo, non è vero che questa generazione non è pro–sociale. L’indice di “lettura” dell’impegno dei giovani non può essere derivante da quanti fanno del volontariato organizzato tourt court. Oggi esistono altre forme, che spesso sono l’anticamera dei cliché della generazione adulta, come il volontariato episodico. Bisogna incentivare questa “carica” altruista, non demonizzare i loro passaggi intermedi.
 
In tutto questo l'annuncio del Vangelo sembra essere quasi un'impresa impossibile.
Quello che le persone vivono quotidianamente è un bisogno di riconoscimento della propria identità  che fanno fatica a trovare nei contesti sociale. Questo, spesso, genera la vergogna di non essere capaci di rispondere a tutte le richieste iper–performanti di questa società. Incontrare l’altro voglia dire accoglierlo nella differenza e nei suoi bisogni. Solo così si potrà avviare un “contagio” con la spiritualità cattolica che potrà essere percepita come elemento di cambiamento nella vita di ciascuno. Molte delle persone che non credono, tra cui tantissimi giovani, in realtà hanno all’interno il desiderio di Dio vivono una costante ricerca della Verità. Quello che chiedono agli adulti, sia anagraficamente che nella fede, è quello di essere testimoni coerenti.

Articoli Correlati