Avvenire di Calabria

A 100 anni dalla distruzione della “Narodni Dom” di Trieste, l'incontro tra il capo dello Stato italiano e Pahor

Mattarella e Pahor per la mano, «quella sera del 13 luglio 1920»

Pasquale Triulcio *

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Rino Alessi, futuro direttore del quotidiano “Il Piccolo” e – dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938 – suo proprietario, affermava: «Le grandi fiamme del Balkan purificano finalmente Trieste, purificano l’anima di tutti noi». Alla soddisfazione dell’Alessi, faceva eco dalle colonne del “Popolo d’Italia” Benito Mussolini che considerava i drammatici fatti della città giuliana: «Il capolavoro del fascismo triestino». Ma cosa era avvenuto di tanto eclatante da suscitare l’ammirazione di Mussolini nei riguardi del fascio triestino?
Il 13 luglio 1920 i giornali avevano dato grande risalto ai gravissimi incidenti di Spalato verificatisi due giorni prima, in cui – secondo quanto narrato in precedenza – durante uno scontro a fuoco tra italiani e croati, nell’area portuale della città, persero la vita il capitano Gulli ed un marinaio italiano. Dal foglio “Era Nuova” il fascio di combattimento incitava ad usare qualsiasi strumento di ritorsione, anche il più violento. Fogli e manifesti dichiaratamente fascisti o appartenenti a fiancheggiatori paventavano un’imminente aggressione jugoslava. La “Narodni Dom” (Casa del Popolo) era un massiccio ma elegante edificio ideato dall’architetto Maks Fabiani. All’interno dello stabile, che inglobava l’Hotel Balkan, erano collocate le sedi delle associazioni nazionaliste slave più in vista e vi trovavano posto studi professionali e abitazioni di sloveni triestini come quella del presidente dell’associazione socio-politica slovena “Jedinost” (“L’Unità”) Josip Vilfan. I piani dell’edificio ospitavano anche la “Cassa Prestiti e Risparmio”, un teatro, la Società Operaia, una biblioteca, un ristorante, un caffè. Nel 1920 l’edificio risultava intestato ad una banca slovena di Trieste. Si trattava di un investimento immobiliare scarsamente redditizio effettuato dal capitale ceco-sloveno nell’anteguerra. Oggi l’edificio quasi sfugge alla vista dell’osservatore, rimanendo soffocato da un palazzone antistante, pur essendo sede di un notevole istituto universitario (Scuola Superiore di Lingue Moderne per interpreti e traduttori). Ma all’inizio del secolo nessun italiano per quanto tiepido fosse il suo spirito nazionale poteva passare innanzi alla “Narodni Dom” rimanendo indifferente e senza provare un senso di malessere, di stizza, di ostilità e di sottile timore. La sua collocazione al centro della città pareva simboleggiare l’importante posizione economica e culturale raggiunta dagli slavi, non solo dagli sloveni ma anche da croati, serbi e cechi, era il segno tangibile delle loro aspirazioni su Trieste. Non a caso fu individuato in esso l’obiettivo da attaccare e da distruggere. Alle ore 18 del 13 luglio 1920 è indetta un’assemblea cittadina in piazza Unità per manifestare contro l’eccidio di Spalato. L’uditorio è composto da circa 2.000 persone arringate da diversi oratori e dall’avvocato Francesco Giunta. Subito dopo il discorso di quest’ultimo, due persone vengono accoltellate in piazza. Nel primo caso si trattava di un giovane istriano che si stava recando a lavoro. La sua colpa era stata quella di aver pronunziato qualche parola in slavo. Questi caduto, viene derubato e portato in ospedale, riuscirà a sopravvivere. L’altro caso è quello di Giovanni Nini, giovane cuoco dell’albergo “Bonavia”, appartenente ad un’organizzazione sindacale apolitica. Di costui, i fascisti ne faranno il simbolo dei drammatici fatti di quel giorno. Un tale professor Randi, salito sul palco, incita a vendicare il giovane patriota pugnalato, ovviamente da slavi (stranamente mai individuati). Una parte dei manifestanti lascia la piazza dirigendosi verso gli obiettivi prefissati. Primo obiettivo sembra essere la sede della rappresentanza ufficiale di Belgrado in via Mazzini, ma qui c’è uno schieramento di forze dell’ordine tale da permettere alla folla di lanciare solamente urla e fischi. Tuttavia all’interno di quella sede, un gruppo, infiltratosi fin dal mattino, riesce a strappare la bandiera jugoslava issata sul balcone e a gettarla alla folla che la calpesta trionfante. Il gruppo sembra adesso dividersi, una cinquantina di elementi si dirigono verso piazza Oberdan dove si affaccia la “Narodni Dom” confinante con via Galatti e via Geppa. Proprio via Galatti, da quanto emerge dal foglio d’ordini del Questore doveva risultare sbarrata da agenti, eppure gli assalitori riescono a raggiungere il Balkan senza alcun ostacolo. Al caffè e alla sala di lettura la clientela, già avvisata dei possibili incidenti, non è presente. Le porte degli uffici e delle abitazioni private sono ben sbarrate. In una situazione diversa si trova l’albergo. Il direttore faceva abitualmente esporre la bandiera italiana e qualche mese prima era stato ringraziato pubblicamente per aver contribuito economicamente al sostegno di Fiume. Persino i clienti dell’albergo non sembra siano stati avvertiti degli imminenti pericoli. Pertanto gli stessi militari consenzienti prevedono un certo attacco simile a quanto era accaduto l’anno precedente, quando i danni furono minimi. Sennonché dall’alto cade una bomba su via Galatti che ferisce gravemente un tenente immischiato tra gli assalitori e la cui fine è caratterizzata da contorni tanto misteriosi quanto agghiaccianti. Senza prendere in considerazione alcun’altra possibilità, la bomba si ritiene, immediatamente, scagliata dal Balkan. L’attentatore, secondo gli assalitori, non era da solo ma sarebbe stato coadiuvato da un gruppo armato slavo, intenzionato a fare strage della folla che attorniava lo stabile. L’unica risposta possibile era dunque assaltare lo stabile e stanare i rivoltosi che – secondo la versione fascista – nel frattempo davano fuoco all’edificio per occultare i depositi d’armi e munizioni nascosti. Ulteriore dimostrazione per l’accusa, a sostegno di questa tesi, sarà il susseguirsi di continui scoppi durante l’incendio: non poteva non trattarsi che di dinamite e bombe pronte per essere fatte esplodere nell’ormai prossima rivolta contro l’Italia. Quando alcuni giorni dopo il comandante della caserma Oberdan volle avere delle testimonianze scritte e si rivolse ad alcuni ufficiali presenti quel pomeriggio, l’uno si rifiutò di testimoniare, gli altri raccontarono di bombe (qualcuno ne aveva udite esplodere due, altri dissero tre, altri ancora cinque), si raccontò di “spari nutriti”, che qualcuno aveva sentito provenire da via Galatti, altri dalle finestre che davano su piazza Oberdan, o forse dal terzo o quarto piano dell’hotel. Si raccontò di gente vista sui tetti e stavolta ciò corrispondeva a verità. La falsità dell’accusa consisteva però nella motivazione. Si trattava infatti di decine di persone che erano salite fin lassù per scampare alle fiamme che si stavano propagando, piuttosto che per sparare sui manifestanti. Dalle testimonianze di tre cittadini americani ospiti dell’albergo, rilasciate al loro Console e da questi presentate alle autorità italiane emergono ulteriori dati a conferma che l’attacco alla “Narodni Dom” era stato qualcosa di orchestrato a cui si assommò anche l’incendio del Balkan. I testimoni sotto giuramento hanno infatti riferito che al momento dell’attacco molti degli ospiti stavano riposando e che furono avvisati dell’emergenza da un servizio d’ordine che stanza per stanza metteva in guardia dalla propagazione ormai incontenibile delle fiamme. Ma ciò che di più importante essi riferiscono è che del servizio d’ordine facevano parte anche dei Carabinieri in divisa, che ebbero modo di perquisire le stanze e le persone presenti: clienti e personale dell’albergo. Essi arrestarono alcuni impiegati del Balkan che, immediatamente si gridò e si scrisse, fossero i colpevoli trovati armati e finalmente assicurati alla giustizia. Ma gli arrestati furono tutti rilasciati a conferma dell’ulteriore falsa notizia. Una sorte drammatica toccò ai coniugi Kablek (qualcuno li individuò come padre e figlia) che in preda al panico si gettarono dal terzo piano. L’uomo morì, mentre la giovane rimase gravemente ferita.
A proposito dell’incendio, si negò che fosse stato appiccato dai manifestanti, i quali non avrebbero avuto a disposizione il materiale infiammabile. La versione ufficiale parla di “latte di benzina” presenti sul posto e poi versata sul mobilio. Una “versione” a dir poco strana questa, in base alla quale, in piena estate fossero presenti taniche di benzina nella hall di un albergo. Ma quella “scomoda”, è la versione fornita dal professor Carlo Schiffrer nel suo articolo: “Fascisti e militari nell’incendio del Balkan” comparso sulla rivista “Trieste” nel 1963, dove riportava infatti le vanterie di fascisti tratti in arresto nel 1943 che in merito alla vicenda del Balkan avrebbero minacciato di rivelare verità compromettenti. Ulteriore conferma alla tesi dell’“azione organizzata”, è il fluire ordinato dello sgombero degli scampati in via Geppa nonostante i continui agguati dei “feroci difensori del Balkan”. Limitandoci ai fatti narrati e documentati, non può non risultare chiaro che quanto avvenuto il 13 luglio a Trieste sia stata un’operazione coordinata e non una bravata improvvisata. È possibile parlare addirittura di congiura militar-fascista? Ci limitiamo all’interrogativo, che riteniamo legittimo anche come effetto, di ciò che avvenne in seguito. Perché non vi furono denunce, non vi furono processi né vennero verbalizzati i gravissimi reati imputati agli slavi? Probabilmente dovevano apparire troppi, in una corretta procedura d’indagine, gli elementi controversi.
Non vi fu nessun omicidio a vendetta del giovane Ninni. Forse perché i registi del 13 luglio sapevano che nessuno aveva pugnalato il povero cuoco e che nessun avversario aveva buttato una bomba o sparato a raffica contro i dimostranti italiani in via Galatti o in piazza Oberdan. Ai vigili del fuoco fu impedito l’accesso in albergo ed il palazzo del “Narodni Dom” bruciò completamente. I ruderi vennero isolati e posti sotto sequestro, per permettere alle autorità della procura militare di rinvenire le tracce del tanto propagandato e auspicato arsenale di armi e munizioni, che lì avrebbe dovuto trovarsi e che mai si trovò. Non sì è a conoscenza di ricerche o perizie fatte e se vi furono, i risultati non sono stati mai resi noti. Nel 1922 le piogge e la bora resero i muri dell’edificio pericolanti ed i proprietari chiesero di poter intervenire per evitare ulteriori danni, fu allora dopo due anni, che la procura dichiarò finito lo stato di sequestro. Era lo stesso anno della “marcia su Roma” ed a nessuno balenava l’idea di tentare di rispondere ai mille “perché” e tanto meno a provarne le risposte.

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