Avvenire di Calabria

A colloquio col direttore dell'Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza episcopale italiana

Mons. Bruno Bignami (Cei): «Il lavoro non sarà più come prima»

Redazione Web

Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram
Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram

Secondo don Bruno Bignami, direttore dell'Ufficio nazionale per i problemi sociali e lavoro della Conferenza episcopale italiana, proseguire l’isolamento fino al 4 maggio è la scelta giusta, nonostante le contrarietà di molta parte del mondo industriale e politico, perché salvaguardare la vita delle persone è la priorità di fronte alla quale l’emergenza produttiva passa in secondo piano. Ma, avverte don Bignami, non si possono sottovalutare le esigenze dell’economia: «Oggi abbiamo il dramma della conta dei morti provocati dal virus ma domani potremmo dover contare le vittime della perdita di posti di lavoro e anche questo sarà devastante dal punto di vista sociale».

E quindi, come si deve procedere?

«Non si può avere una economia solida se non c’è un sistema sanitario altrettanto solido. Dentro questa prospettiva, il primo punto è garantire la salute e l’incolumità dei lavoratori. Solo con queste premesse è possibile tornare a produrre. Per affrontare l’epidemia erano possibili due strade: la prima era una vigilanza serratissima dell’andamento del contagio con l’esecuzione di tamponi a tappeto, in modo da scoprire e isolare chi è positivo al virus ma asintomatico. La seconda strada era chiudere tutto, la scelta che è stata fatta in Italia, con ricadute significative sul sistema economico. Imboccata questa seconda strada oggi non ci sono alternative».

Ma la prima strada non era percorribile: impossibile per il nostro Sistema sanitario eseguire nelle scorse settimane test a tappeto e non era disponibile un sistema di tracciamento informatico dei contatti tra le persone.

«È il momento in cui bisogna fare discernimento se davvero le scelte che sono state operate sono state le più opportune. Questa pandemia ci dice che se vogliamo un sistema economico forte dobbiamo avere un sistema sanitario altrettanto forte. Altrimenti l’immagine biblica del gigante dai piedi d’argilla è emblematica. L’interesse economico senza tutela della salute pubblica non regge».

All’uscita dal contagio avremo urgente bisogno di un sistema solido di Welfare perché la crisi economica si preannuncia molto seria. Andrà ripensato il sistema di tutele sociali?

«Penso che sia il tempo di capire che direzione vogliamo prendere: sarebbe profondamente sbagliato ricominciare come se nulla fosse successo e rimettere in atto un’economia così aggressiva ed escludente nei confronti delle fasce più deboli della società. Sarà necessario ripensare il Welfare, la tutela sociale, la politica industriale, le strategie economiche in un’ottica non assistenzialistica ma di reale integrazione e valorizzazione delle persone. Si dovrà ripartire con prospettive diverse, ma temo sarà difficile perché non avverto in questa fase un’adeguata riflessione di senso per il “dopo”».

Già in queste settimane di crisi c’è stata disparità di trattamento tra i lavoratori. Da una parte coloro che hanno potuto usufruire di smart work e dall’altra medici, infermieri, forze dell’ordine, commessi, trasportatori, addetti alle manutenzioni che hanno garantito servizi fondamentali per la tenuta del sistema-paese ma non sono stati adeguatamente tutelati… È stato chiesto troppo?

«Ad alcune categorie sicuramente sì. Penso agli operatori sanitari che si sono trovati in condizioni di lavoro molto difficili e senza i dispositivi indispensabili per la tutela della loro salute. E il numero di vittime tra i medici lo conferma. E poi è mancato il ricambio tra chi era impegnato a garantire le cure e i lavoratori sono stati sottoposti a turni massacranti: per questo dovremo domandarci se avrà ancora senso il numero chiuso nelle facoltà di Medicina e quante risorse vogliamo riservare al sistema sanitario e alla rete di vigilanza epidemiologica. Domandiamoci quante vittime sono state provocate dal troppo tempo impiegato all’inizio per capire che ci trovavamo di fronte il Covid-19».

Come si deve tornare al lavoro?

«Ora è necessario distinguere bene tra chi è indispensabile per i servizi essenziali, cui vanno garantiti tutti gli strumenti e l’organizzazione necessari per la tutela della salute e chi può contribuire alla salute pubblica lavorando da casa o non lavorando affatto. E per chi deve lavorare va garantito il ricambio. Penso, per esempio, al mondo dei marittimi, dove si sta lavorando con turni insostenibili per gli equipaggi nelle navi mercantili. O ai migranti lavoratori stagionali nella filiera agro-alimentare, di cui improvvisamente scopriamo il ruolo indispensabile ma che abbiamo continuato a sfruttare senza tutele».

Abbiamo scoperto che il lavoro da casa in alcuni settori può migliorare la qualità della vita?

«Questa potrebbe essere, a certe condizioni, un’eredità positiva dell’epidemia. Le crisi permettono di sperimentare e la tecnologia potrà aiutarci ad affrontare in maniera diversa e più solidale questioni come la conciliazione tra famiglia e lavoro e il sistema dei trasporti e il suo impatto sull’ambiente».

Nonostante le limitazioni, la Chiesa italiana non ha smesso di rimanere “vicina” alle persone. Lo dimostra il grande numero di preti e religiosi che si sono infettati e sono morti, l’assistenza ai poveri e alle persone fragili che non ha smesso di funzionare, l’importante stanziamento economico messo a disposizione dalla Cei con fondi dell’Otto per mille… Le conseguenze della pandemia si faranno sentire ancora a lungo: cosa può fare la comunità cristiana?

«Si è vista una profonda solidarietà espressa della Chiesa. Il blocco del Paese ha esasperato la situazione di persone in condizione precaria che da povertà è diventata miseria. All’inizio la Caritas ha dovuto riorganizzare il suo servizio, ma non si è fermata un minuto. Occorre proseguire con la messa a disposizione di risorse perché la gente non subisca altre sofferenze oltre ai lutti e alla malattia. Penso poi che l’altro fronte su cui la Chiesa deve dire una parola è quello culturale: bisogna capire cosa sta avvenendo e quali conversioni ci chiede questa situazione. Ci attende un grande lavoro di discernimento condiviso: è un’azione complicata, ma anche la più preziosa se si vuole andare oltre l’angoscia per il futuro e dare motivi di speranza».

Articoli Correlati