Avvenire di Calabria

Oggi, 2 agosto, l'arcivescovo di Reggio Calabria - Bova festeggia mezzo secolo dall'ordinazione sacerdotale

Morosini, cinquant’anni di sacerdozio: «Col Signore accanto»

Davide Imeneo

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Oggi, 2 agosto, monsignor Giuseppe Fiorini Morosini festeggia cinquant'anni di sacerdozio. Un traguardo importante vissuto con estrema sobrietà. Lo abbiamo intervistato per confrontarci su questa esperienza di servizio lunga mezzo secolo.

Cinquant’anni di sacerdozio sono una tappa importante. Come riassumerli?
Userei, senz’altro, il mio motto episcopale che è anche la frase biblica che ho scelto per il ricordino della mia ordinazione sacerdotale. Quel passo della Lettera di San Paolo a Timoteo: «Fidem Servavi». Sono andato avanti sempre con questo obiettivo: leggere nella mia vita, la presenza del Signore. Oggi posso dire: grazie.

Diversi servizi all’interno della Chiesa. Quale è il ricordo più bello dei suoi primi anni da sacerdote?
I dodici anni passati a Lamezia Terme che è stata la mia prima esperienza pastorale dal 1974 al 1986. In quella occasione ho potuto coniugare diversi aspetti: la missionarietà nelle zone di montagna più impervie, ma anche nelle piccole comunità. E soprattutto l’insegnamento di filosofia nelle scuole pubbliche. Sono stati davvero intensi, grazie al sostegno di un grande vescovo, monsignor Giuseppe Palatucci, grazie al quale abbiamo potuto attuare le conquiste conciliari.

Padre Morosini che professore è stato?
Anzitutto conservo un ricordo affettuoso perché è stata una conquista sudata. Un lavoro ottenuto attraverso un concorso pubblico che mi ha portato a fare tanti sacrifici, come un insegnante qualunque. Senza sconti. E poi, la laicità della scuola: personalmente ho sempre insegnato filosofia escludendo ogni condizionamento confessionale nelle mie lezioni, a tal punto da portare i miei studenti a “rimproverarmi” per la mia scelta di non parlare mai di religione in classe.

Eppure, lei ha dedicato tanti studi alla spiritualità, in particolare a quella di san Francesco da Paola.
Ho iniziato a interessarmi alla sua figura sin da quando facevo il liceo. Da allora è stato un crescendo di approfondimenti. Mi ritengo soddisfatto perché ho dato il mio contributo allo studio di questa personalità sconosciuta a tantissimi calabresi. Eppure la sua portata storica è straordinaria, così come la sua testimonianza tutt’oggi è ancora fortissima se riletta con gli occhi della fede. In qualche modo potremmo dire che ha anticipato l’enciclica di papa Francesco sull’ecologia integrale.

Lei è stato chiamato a guidare la Congregazione dei minimi. Che esperienza è stata?
Sono ricordi bellissimi perché mi hanno dato una visione mondiale della Chiesa. Girare in diverse nazioni aiuta ad ampliare gli orizzonti, soprattutto mi riferisco alla vivacità della Chiesa brasiliana. Penso ai piani di lavoro sudamericani che sono interessanti e attuali anche per la società italiana.

Dopo questo tempo alla guida della sua famiglia religiosa, la chiamata di papa Benedetto e l’arrivo a Locri.
Come vescovo si acquisisce una responsabilità grande: una presa di posizione può essere decisivo per una Comunità. Questo ti spinge a leggere i fatti con più attenzione e guardare con maggiore prospettiva circa gli interventi pubblici da fare. Prudenza e coraggio sono due sentimenti che mi hanno accompagnato nei miei anni di Locri.

Infine, la nomina a pastore di Reggio Calabria – Bova.
La società reggina è più organizzata ed evoluta di quella della Locride, sotto più aspetti: culturale, economico e politico. Pertanto, la responsabilità si vive in una dimensione più ampia che ci richiama a una maggiore attenzione alle diverse anime che compongono la comunità.

Lei si è contraddistinto per il suo immediato impegno verso i più giovani.
Con amarezza dico che il “problema” della Pastorale giovanile non l’abbiamo ancora affrontato in modo determinante. Neanche io che sono ormai a conclusione del mio mandato posso affermare di aver dato una svolta in tal senso. A Reggio ci sono tantissime esperienze virtuose, però rimangono tutte scollegate tra loro: non c’è una gioventù cattolica che vive la dimensione ecclesiale unitaria. Manca una coscienza di comunità cristiana.

Altro impegno radicale del suo episcopato a Reggio è quello sulla cultura. Perché lo ha fatto?
Dell’esortazione Evangelii Nuntiandi di Paolo VI colpì particolarmente un passaggio dove dice: «Come possiamo arrivare lì dove si decide del futuro della cultura?». Reggio Calabria ha una vocazione particolare: per questo lo sforzo per creare il corso di laurea specialistico sul Dialogo interreligioso è uno spazio da esplorare. Bisogna lavorare moltissimo in questa direzione. La Chiesa reggina deve capire che non si tratta di un’iniziativa strettamente del vescovo, ma che si tratta di una profezia. Se non si muoverà in questa direzione, l’arcidiocesi di Reggio Calabria – Bova tradirà la sua stessa natura.

Cinquant’anni da sacerdote in un tempo in cui la Chiesa è cambiata in modo radicale. Cosa consiglia a un prete appena ordinato?
Non ripetere gli errori che hanno fatto tanti religiosi e sacerdoti all’indomani del Concilio interpretando l’apertura al mondo come perdita dell’identità sacerdotale. Bisogna, invece, mantenerla ferma: mi riferisco all’impostazione di vita che non è cambiata. Pensiamo alla centralità di Cristo e la fuga dal mondo. Se si ha una stabilità da questo punto di vista può esserci un reale coinvolgimento nella società, senza però mai snaturare la propria vocazione. Non bisogna mimetizzarsi tra i giovani, ma essere da esempio: non bisogna essere un compagno di giochi, ma mantenere una propria dimensione sacerdotale. Si deve dare la percezione di appartenere a Gesù Cristo per potersi mettere in ascolto del mondo.

Non sono mancati anche i momenti difficili.
Occorre cercare l’aiuto che la struttura ecclesiale ti dona, nel mio caso c’è stata la mia famiglia religiosa. Serve confrontarsi e sognare assieme per resistere alla tribolazione. Questo operare, però, deve sempre essere supportato dalla preghiera con la pazienza di aspettare i tempi di Dio.

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