Avvenire di Calabria

Tanti slogan, ma poca sostanza: la parità di genere a Reggio Calabria registra ancora molte criticità al fronte di poco impegno educativo

Parità di genere a Reggio Calabria, ciò che manca è l’impegno educativo coi ragazzi

In occasione della Giornata per la Giustizia sociale abbiamo provato ad analizzare le troppe disparità che insistono sul territorio calabrese

di Autori Vari

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Tanti slogan, ma poca sostanza: la parità di genere a Reggio Calabria registra ancora molte criticità al fronte di poco impegno educativo. In occasione della Giornata per la Giustizia sociale abbiamo provato ad analizzare le troppe disparità che insistono sul territorio calabrese.

Reggio Calabria, l'analisi sulla parità di genere sul territorio

di Federico Minniti - Impossibile parlare di giustizia sociale senza volgere lo sguardo alle troppe disparità di genere che ancora caratterizzano il territorio reggino e calabrese. Ne abbiamo parlato con Francesca Mallamaci, assistente sociale e responsabile del Centro Antiviolenza e della Casa Rifugio “Angela Morabito” per donne e minori vittime di violenza domestica e di genere a Reggio Calabria.

Quanto c’è ancora da fare per riaffermare la parità di diritti tra uomini e donne in Calabria?

Si parla tanto di parità di genere. Certamente tanto è stato fatto, ma ancora oggi nella nostra società, sui nostri territori è presente un gender gap importante poiché, purtroppo, le condizioni sociali, economiche e culturali di uomini e donne sono ancora lungi dal vedere raggiunta una situazione di parità. Dalle cronache quotidiane sappiamo che ai progressi culturali non sono seguiti i fatti: sono in crescita i femminicidi e le situazioni in cui le donne sono costrette a scappare per tutelare se stesse ed i loro figli da uomini maltrattanti, costrette a rinunce di vario tipo per una libertà che spesso si paga a caro prezzo incorrendo in diverse tipologie di vittimizzazione secondaria.


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Ci può fare qualche esempio di questa differenza così marcata?

La disparità di reddito nelle stesse posizioni lavorative è ancora grande, i ruoli apicali o manageriali sono per lo più riservati agli uomini; la povertà è più forte tra le persone anziane di sesso femminile; l’impiego part time delle donne è maggiormente presente rispetto alla popolazione maschile. Questo ci fa desumere che le differenze economiche impediscono di raggiungere una maggiore parità di genere. A questo si unisce la forte penalizzazione esistente nella conciliazione dei tempi lavoro-famiglia. Posto che una mamma riesca a trovare lavoro, vi è il fondato rischio che non trovi una struttura dove lasciare i figli più piccoli e sia costretta a rinunciare all’impiego, oppure deve avere abbastanza risorse per pagare chi la possa supportare.

Si è fatto tanto, però, sembra essere quasi al punto di partenza.

Il raggiungimento, l’affermazione e non riaffermazione effettiva della parità di genere si avrà quando si arriverà alla percezione culturale della necessità per il bene comune della presenza attiva delle donne nei luoghi dove si assumo decisioni. Purtroppo i valori di cui le donne sono portatrici non sono sufficientemente riconosciuti e apprezzati, neanche da alcune donne che valutano la questione dell’emancipazione come un problema di conquista di diritti individuali e non una rivendicazione di doveri sociali, diritti da accordare e non doveri da sostenere. Occorre considerare la donna, la famiglia, elementi di maggiore interesse e centralità nelle politiche di welfare per i servizi di cura e delle pari opportunità di genere negli aiuti per la conciliazione.


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Lontano dai riflettori, il tema della violenza di genere non sembra placarsi. Quanti e quali storie vi trovate ad accompagnare nel vostro servizio?

La fenomelogia della violenza di genere non solo non si placa, ma rappresenta una vera e propria “questione sociale”, sommersa, della quale non è faccile tracciare i contorni, dal momento che riguarda trasversalmente classi, famiglie, livelli di istruzione, età e generazioni ed è un grave problema di salute pubblica, di violazione di diritti umani. Il Centro Antiviolenza e la Casa Rifugio Angela Morabito dell’Associazione Piccola Opera Papa Giovanni di Reggio Calabria dal loro avvio nell’aprile 2013 ad oggi si sono posti accanto a tantissime donne e ai loro figli, affiancandoli e sostenendoli nei faticosi e dolorosi percorsi di fuoriuscita dalla violenza; storie dolorose, travagliate che hanno tutte avute un comune denominatore, ovvero la violenza psicologica, che può considerarsi come la forma più subdola di maltrattamento, pervasiva e distruttiva in quanto invisibile e silenziosa, che colpisce moltissime donne, spesso inconsapevoli di esserne vittime. È significativo fornire qualche dato per dare un piccolo spaccato del fenomeno sul territorio metropolitano in ordine al numero di donne prese in carico dal nostro Centroviolenza con sede a Reggio Calabria e dagli sportelli territoriali di Ardore e Polistena: nel solo 2022 si sono registrati 490 contatti al nostro Centro, 163 accessi, 59 prese in carico. Nella Casa Rifugio: 8 donne e 13 minori accolti.

Secondo lei c’è la giusta attenzione educativa (in famiglia, a scuola o presso le agenzie educative) sul tema?

Gli atteggiamenti, le convinzioni e i modelli comportamentali, come ben sappiamo, si forgiano molto presto nell’infanzia. Insegnare questi valori alle giovani generazioni nell’ambito dell’educazione formale e non formale può contribuire significativamente a rendere inaccettabile la violenza contro le donne. La centralità dell’educazione di genere nella prevenzione della violenza è sottolineata anche dalla Convenzione del Consiglio d’Europa, tuttavia non sono stati ancora previsti e resi operativi dei significativi piani straordinari contro la violenza di genere, soprattutto in campo scolastico, che per ottenere dei risultati ed essere efficaci dovrebbero includere nei piani triennali dell’offerta formativa.

“Pensati libera” è lo slogan usato dalla influencer Chiara Ferragni sul palco di Sanremo per rilanciare il tema delle differenze di genere. Basta questo?

Non è sufficiente “pensarsi libera” ma occorre “rendersi libera”, occorre agire, passare all’azione in un processo dinamico che deve mirare, oltre allo sforzo individuale di ciascuna donna vittima di violenza, anche ad una dimensione collettiva e sociale per costituire un processo veramente trasformativo, di cambiamento sociale, politico ed economico, volto a sdradicare le discriminazioni di genere in tutti i settori delle relazioni sociali. Occorre quindi lavorare molto sulle azioni concrete, sull’empowerment delle donne, che è un costante esercizio di libertà. Non sono i moti di opinione fine a se stessi, proposti dalle influencer per quanto brave possano essere, a innescare processi culturali di cambiamento, ma protocolli educativi integrati finalizzati a rendere visibile l’invisibile.


PER APPROFONDIRE: Violenza di genere, la mamma ferita: «Così sono rinata»


Cercatori di normalità con le ferite addosso. Le storie dei migranti sono un grido d’aiuto per le nostre coscienze

di Pasquale Costantino - I migranti che arrivano in Italia e in Europa, sia regolarmente che clandestinamente, vogliono uscire da una situazione di povertà, che a seconda dei Paesi di origine e delle singole situazioni si presenta sotto diverse forme. I flussi migratori nascono, in primis, dalla mancanza di giustizia sociale nei Paesi di provenienza di quelle persone.

I Paesi africani ed asiatici da cui provengono i migranti che arrivano in Italia sono caratterizzati da enormi ingiustizie sociali, che si presentano con evidenti diseguaglianze in termini di reddito, accesso alla sanità, all’istruzione, alla casa, al lavoro. In particolare, risulta stridente il contrasto tra la ricchezza di risorse naturali e ambientali di questi Paesi, cui corrisponde la ricchezza di una piccola fetta della popolazione, e la povertà della generalità della popolazione.

In molti di questi stati, inoltre, anche la situazione di sicurezza è quantomeno precaria, per la presenza di conflitti interni, oppure per il protrarsi di vere e proprie guerre in atto. Questa ingiustizia sociale non è certamente una “malattia endemica” di questi stati, ma ha origine, principalmente, dal plurisecolare e ancora attualissimo sfruttamento delle risorse di questi Paesi da parte degli stati “sviluppati”.

L’ingiustizia sociale interna, dunque, è strettamente connessa ad una ingiustizia sociale “internazionale” ed agli enormi squilibri economici e sociali esistenti tra i Paesi cosiddetti sviluppati e quelli del “Terzo Mondo”. Questi squilibri fanno si che le persone che decidono di partire per l’Europa vedano il nostro continente come un luogo ricchissimo, dove si trovano benessere, lavoro e diritti per tutti. Chi arriva in Europa spera di poter vivere un presente diverso da quello che lascia e sopratutto costruire un futuro migliore, per sé e i propri figli, ma anche per le famiglie di origine che restano in patria.

La situazione economica e lo stile di vita dei Paesi occidentali esercitano una enorme forza di attrazione sulle persone che vivono in condizioni radicalmente diverse. Per questo, intere famiglie o interi villaggi raccolgono le somme necessarie per finanziare il viaggio, oppure i prescelti per il viaggio (i più forti e in salute) si consegnano nelle mani dei trafficanti di esseri umani, indebitandosi e vincolandosi a pagare un “riscatto”, alimentando cosi il fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo.

La speranza che muove queste persone, le spinge ad affrontare difficoltà, pericoli e sofferenze difficilmente immaginabili per noi, ma a volte anche per loro prima della partenza. Tuttavia, questa speranza spesso resta delusa. I diritti dei migranti, sia in quanto persone umane sia in quanto lavoratori, anche se formalmente riconosciuti, sono spesso nelle prassi limitati o del tutto lesi, e questo implica che non vengano garantite condizioni paritarie di alle opportunità che la nostra società offre o dovrebbe offrire a tutti.

Le vittime di tratta, per ripagarsi il viaggio o semplicemente per la paura di ritorsioni per se o per i propri familiari in patria, vivono in condizioni di schiavitù vera e propria, o nei casi migliori di sfruttamento e soggezione. Gli altri, quelli che riescono a lavorare liberamente, non trovano, se non dopo anni, la realizzazione o la giustizia sociale che si aspettavano, e che meritano in quanto esseri umani e lavoratori. Nel mondo del lavoro sono varie le forme di sfruttamento: dal lavoro nero, con totale assenza di garanzie, diritti e sicurezza per i lavoratori, al lavoro formalmente regolare che nasconde altre forme di sfruttamento.

Anche sul piano abitativo, rimane difficile per i lavoratori migranti riuscire a trovare un alloggio dignitoso, quasi sempre per un pregiudizio nei loro confronti rispetto alla capacità di pagare il canone ovvero di non arrecare danni agli immobili. Si accontentano pertanto di alloggi di fortuna, spesso nelle baraccopoli, pericolosissime sotto tutti i punti di vista, o di locazioni in nero di immobili “fuori mercato”.

Spesso anche il settore pubblico non garantisce in maniera uniforme i diritti agli stranieri: in moltissime occasioni, i bandi degli enti locali per l’assegnazione di contributi e alloggi, o per l’accesso alle mense scolastiche o ad altri servizi locali, sono stati dichiarati discriminatori dai Tribunali, in quanto inserivano la cittadinanza italiana tra i requisiti per l’accesso.

Per lungo tempo, e spesso nella prassi ancora oggi, è stato impossibile per i lavoratori stranieri aprire un conto corrente in Italia nel periodo di attesa del rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno (periodo spesso lunghissimo a causa dell’impossibilità per le Questure di trattare le istanze in tempi brevi). In altri settori, permangono delle discriminazioni anche a livello legislativo (per esempio, i cittadini stranieri, regolarmente soggiornanti in Italia, non possono avvalersi delle autocertificazioni nelle procedure relative al rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno). Molti progressi sono stati fatti in questi anni, ma la strada della effettiva realizzazione della giustizia sociale nei confronti dei migranti è ancora lunga.

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