Avvenire di Calabria

Tra appelli alla partecipazione e critiche sull’efficacia dei quesiti, si accende il dibattito in vista del voto referendario dell’8 giugno

Lavoro e diritto di cittadinanza, cosa propone il referendum dell’8 e 9 giugno

Un appello invita a votare per più tutele sul lavoro e sulla cittadinanza. Ma c’è anche chi, come Valentino Munanga, denuncia promesse mancate: «Questo voto arriva tardi»

di Autori vari

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Tra lavoro e cittadinanza, i referendum dell'8 e 9 giugno offrono un’occasione di partecipazione che chiama in causa il senso di responsabilità civica. Un appello al voto e una testimonianza diretta invitano a riflettere sui diritti da riconquistare.

Ecco cinque quesiti per diritti e inclusione

di Anna Nucera *

Siamo perfettamente coscienti di quanto sia difficile, oggi, raggiungere il quorum per rendere valido l’esito di un referendum, e lo sarà anche questa volta. In linea con le mie idee di partecipazione e responsabilità, lancio un appello ai cittadini reggini: andiamo a votare ai referendum previsti per domenica 8 giugno.



Votare non è solo un dovere civico (fin troppo trascurato). Il voto referendario aiuta la democrazia senza l’obbligo dello schieramento politico. Ogni cittadino ha la responsabilità di partecipare, almeno con il voto, alla definizione del futuro della propria comunità. E i 5 quesiti referendari toccano questioni cruciali della nostra vita quotidiana.


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Ben quattro riguardano il lavoro. La mancanza di tutele efficaci per i dipendenti sta generando gravi conseguenze, incertezza per il futuro dei nostri figli, precarietà crescente. Nessun lavoratore si sente più protetto: né nella salute e nella sicurezza (oltre 1.000 morti l’anno sul lavoro), né nella stabilità del proprio impiego, minacciato da norme inefficaci. Le mani libere su licenziamenti e contratti a termine non hanno creato nuova occupazione: hanno reso il basso salario una costante, con pesanti ricadute sull’economia nazionale e familiare. In questo scenario, mentre l’Italia stima una crescita dello 0,7% nel 2025, la Spagna cresce 5 volte tanto, grazie a scelte intelligenti su salario minimo e investimenti a tutela del lavoro e dell’impresa. Ma tutto questo si può cambiare.

Se andremo a votare in massa e promuoveremo i referendum sul lavoro, potremo ottenere più garanzie per i dipendenti: il reinserimento della giusta causa nei licenziamenti, risarcimenti più equi, limiti all’abuso dei contratti a termine, responsabilità delle ditte appaltanti in caso di infortuni. Sono norme che possono restituire dignità e serenità a chi lavora. Andare a votare il prossimo 8 giugno è nell’interesse nostro e dei nostri figli!

Il quinto quesito riguarda l’ottenimento della cittadinanza per gli stranieri residenti in Italia: passare da 10 a 5 anni. Una norma di civiltà che darebbe pieni diritti a chi dimostra vero interesse per il bene comune. Votando difenderemo la democrazia e dimostreremo di voler partecipare, da cittadini responsabili, alla vita della nostra terra. Concludo con una frase di Martin Luther King: «Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non farete nulla per cambiarla». Io ho scelto da tempo cosa fare e da che parte stare: «Sempre dalla parte dei Reggini».

Diritto di cittadinanza, la testimonianza: «Io, padre di due figli nati qui: il referendum è una presa in giro»

di Francesco Chindemi

È una presa in giro per i figli degli immigrati nati in Italia». Valentino Munanga, congolese, da anni residente a Reggio Calabria e operatore del Centro Migrantes della diocesi, parla con amarezza. È padre di due figli nati nel nostro Paese: il maggiore ha ottenuto la cittadinanza solo a 18 anni, la secondogenita dovrà attendere settembre per veder riconosciuto lo stesso diritto.

«Quello che si vota l’8 giugno andava fatto anni fa – spiega – quando al governo c’era chi ne aveva la possibilità: il centrosinistra. Ma chi oggi propone il referendum, ieri ha avuto la maggioranza assoluta e ha messo tutto nel cassetto nonostante avesse sbandierato lo Ius solis come atto di impegno». Munanga ricorda il dialogo avviato anni fa con l’ex ministra Cecile Kyenge: «Portammo un memorandum a Roma. Lei cercò di muoversi, ma il suo stesso partito, il Pd, non la sostenne. Ora, da opposizione, spingono su un referendum che sembra più una provocazione politica per andare contro all’attuale governo che un reale atto di giustizia».

Eppure il tema è sempre più urgente. «Non è accettabile che un ragazzo nato in Italia, che frequenta le nostre scuole, le nostre parrocchie, parli italiano meglio di tanti coetanei, debba aspettare 18 anni per sentirsi davvero parte di questa nazione. È un paradosso: chi arriva da fuori può ottenere la cittadinanza dopo dieci anni di residenza, chi si sposa con un italiano dopo due. E chi nasce qui? Deve aspettare e sentirsi straniero nella sua stessa terra». Per Munanga non si tratta solo di legge, ma di civiltà.



«La cittadinanza dovrebbe essere concessa a chi ama l’Italia, la conosce, vi si integra. Non a chi vive altrove e non sa nemmeno dove sia sulla carta geografica». E conclude con un appello: «Serve un clima di dialogo vero. Non si può chiedere a questi ragazzi di sentirsi italiani solo quando fa comodo. Hanno già dimostrato di esserlo».

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