Avvenire di Calabria

Proseguiamo il nostro viaggio nella storia di Reggio Calabria: questa settimana la tappa è la parrocchia di Cannavò

Reggio Calabria, viaggio nella storia della parrocchia di Cannavò

Grazie all'architetto Renato Laganà ripercorreremo tutti i passaggi storica dal '600 ai giorni nostri con aneddoti e curiosità

di Renato Laganà

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Proseguiamo il nostro viaggio nella storia di Reggio Calabria: questa settimana la tappa è la parrocchia di Cannavò. Grazie all'architetto Renato Laganà ripercorreremo tutti i passaggi storica dal '600 ai giorni nostri con aneddoti e curiosità.

Conosci la storia della parrocchia di Cannavò a Reggio Calabria?

La storia della antica parrocchia del Riparo, come abbiamo potuto notare nel nostro percorso, si è spesso intrecciata con quella della vicina parrocchia di Cannavò. Quest’ultima era collocata al confine con quello che un tempo era il territorio dell’antica Sant’Agata, rientrando tra i centri che nel Cinquecento venivano definiti i Casali di Reggio. 


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Cannavò, la Chiesa povera

Il villaggio di Cannavò era appollaiato su una collinetta in prossimità della confluenza del vallone di Petrangelo verso la fiumara di Calopinace e quivi giunse l’arcivescovo D’Afflitto il giorno 26 aprile 1595 nel suo itinerario tra gli antichi casali sparsi tra le vallate e le colline che risalgono verso l’Aspromonte.

Nella piccola chiesa il presule, dopo il rituale di ingresso, celebrò la messa e amministrò il sacramento della confermazione. La chiesa era povera e l’arcivescovo dispose che si redigesse un inventario dei beni e dei pochi oggetti sacri.

Quattro anni dopo, il 14 febbraio, il presule tornò a visitare la chiesetta di San Nicola. La relazione della Visita descrive più in dettaglio il ruolo della chiesa ed il rapporto con il suo territorio, precisando che essa era retta dai tre «magistri» Giuseppe Maria Marturano, Ange- lo Crucitti e Armidio Medeo, nominati per quell’anno, e che era cappellano, con un «salario» di trenta ducati annui, il sac. Giovan Battista Verduci, originario di S. Lorenzo, che celebrava le messe nei giorni di domenica e in quelli festivi, frequentate dagli abitanti del vicino villaggio di Pavigliana, «che a causa del piccolo numero delle case e della povertà della gente, non potevano mantenere il parroco».

L’arcivescovo, su richiesta delle trenta famiglie del villaggio e di quelle che avevano le loro case nei giardini lungo il fiume, volle porre fine ai continui mutamenti del cappellano nominato dai reggenti di turno e stabilì che la chiesa di San Nicola venisse eretta come sede di una nuova parrocchia.

L’indicazione dei confini seguì una procedura diversa da quella adottata per le altre realtà parrocchiali della vallata inserendo, dapprima una sommaria indicazione: «incominciando dal Riparo quindi viene da Rhiggio e venendo allo valloni di Matteo di Neri, e nesci allo Serro di Castelli, e va sopra la Chiesa di Prumo verso la laura di Nasiti che va a monte e poi si nesci a Gio: Lorito Rugnetta verso Geronimo Casavari, e poi si nisci verso la casa di Agustino Liuni et arriva a Pavigliana e di S.ta Venere viene allo Casale, et abbasciando sotto per lo fiume esci dove Geronimo Lingria e Mariano di Capua, esci alla Chiesa della Madonna del Riparo i cui confini stabiliti sono distanti un miglio dalla detta chiesa di San Nicola».

Poi l’indicazione puntuale dei nuclei familiari in essi compresi: «Per prima la casa di Gio. Paolo Liveri, Angelo Crucitti, Rinaldo Puturtì, Bernardino Vazzani, Ferintino Ficara, Tiberio Vazzani, Matteo Tuscano, Branda Cosmano, la ved.a di Gio. Pietro Foti, Gio. Batta Rigolino, Desio Damascina, la ved.a di Alfonso Bono, la ved.a di Nesio Scirà, Giorgio Provinzano, Natali Arbanisi, Giando Angilino, Caminoro Liuni, Armidio Medeo, Iacobello Manti, Mariano Merlo, Gio. M.a Morabito, Pietro Cutrupi, Simoni Putortì, Cristaldo Todaro, Paolo Cu- trupi, Pascali Bonanno, Nocenti di Cara, Damiano Candi, Vincenzo Milaz-zo, Gio. Maria Marturano, Col. Ant. Damascina, Chillo Cutrupi, Colamaria Carisci, la ved.a di S.to di Nicolò, Gio. Giacomo di Cara, Mario Cassalia, Sentio Chilà, Mico Filocamo, Bernardello Damascina, Mariano di Capua, Minichello Cardea, Mutio Murabito, Geronimo Lingria, Paulo Cotrupi, Conforto La Face, Minichello di Capua, Gio. Pietro Puliti, Ascanio Carboni, lo giardiniere di Mons. Ill.mo Arci- vescovo, Marcello Busurgi, Gio. Maria Spanò, Matteo Biasi, la ved. di Ant.no Paschia, la ved. di Matteo Vitriolo, Famio Tesorieri, Paulo Merenda, Colitta Nocita, la ved. di Alessandro Rognet- ta, Antonio Moliti seu Giando, Giuseppe Calarco, la ved. di Alfonso Ruda, Filippo Monsolino, Cesare Mosolino, Aloisio Rognetta, Terenzio Branca, Confidio Zangari, Nesio Berti, Nino Billè, Marco Ciaramitano, la ved.a di Colafrancesco Cannuari, Alfonso Spanò seu lo Giand.o, Vincenzo Santoro, Giando Caserta, Soro Polita Barillà, Gio. Dom.o Piamunti, Gio. Pi tro Curtagamba, Gio. Alfonso Milito, Agostino Liviri».

L’elenco verrà ripetuto anche nelle visite successive e già nel 1605 vennero compresi anche i 14 «focolari» di Pavigliana «Camillo di Mare, Delfio Cagliostro, Giulia Spataro, Innocenzo di Arena, Fratto Mandica, Col. B. Cutrupi, Basillo Caracciolo, Gelormo Mandica, il giardiniere di Filippo Borla, Andrea Morabito, Lav. di Malavindi, la ved.a di Carlo Polimeni, Basilio Callato, Paolo Vazzana». La parrocchia confinava ad occidente con quella di San Giorgio de Gulferiis, che in quel periodo si estendeva verso l’interno della vallata ed il numero degli abitanti raggiungeva le 500 unità con circa 100 nuclei familiari.

L’arcivescovo nel visitare la chiesa si fermò in adorazione eucaristica davanti alla pisside riposta in un tabernacolo in legno dorato collocata su un altare portatile sulla destra dell’altare principale. Rivoltosi ai «procuratori» Giacomo di Cara e Vito Cotrupi ordinò loro, entro tre mesi, di dotare la chiesa di una pisside d’argento per custodire il SS. Sacramento da portare agli infermi e di ornare la parte interna del tabernacolo con un panno di seta.

Dei registri parrocchiali di quegli anni ci è pervenuto soltanto il registro dei battesimi nei quali le indicazioni dei cappellani fanno trasparire momenti di vita della comunità. Nella zona, negli ultimi anni del Cinquecento, avevano trovato rifugio molte famiglie reggine «essendo a Cannavò per pericolo di Turchi».

Nel 1603 padre Vincenzo Sotira «di Stignano della Città di Stilo», vicario sostituto designato dall’arcivescovo nella chiesa di San Nicola, battezzò i due figli, Francesco e Giovanna, «unu doppo l’altro», dei reggini Filippo Romeo e Ursula Tornesi. Il parroco annotò che in alcuni casi, come indicato dal Concilio tridentino e poi confermato dal Sinodo diocesano, erano state le levatrici ad amministrare il battesimo «per pericolo di morte».

Tra il 1604 e il 1610 esercitavano l’attività di levatrice Caterinella Malgeri, Bernardina Dileo e Giulia Scopelliti. Nel 1610, dopo il trasferimento di Don Paolo Pitarella, «cappellano curato», i battesimi dei piccoli Filippo Marra e Salvatore Zangari, «per mancanza di sacerdote a Cannavò», furono celebrati nella «Madre Chiesa» di Reggio.


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La storia | Il vescovo di Reggio Calabria visita la parrocchia di Cannavò

Il 3 ottobre 1610, nel visitare il «villaggio» di Cannavò, l’arcivescovo Annibale D’Afflitto venne accolto dal sacerdote Francesco Nardo, della città di Sant’Agata, che svolgeva la funzione di vice vicario nella chiesa parrocchiale.

Dopo aver benedetto i fedeli e aver raggiunto la sede posta «in cornu evangeli» nell’area presbiteriale si raccolse in adorazione della Santissima Eucarestia che era conservata in una grande pisside d’argento, coperta da un conopeo di seta e appoggiata su un corporale, all’interno di un grande tabernacolo in legno dorato, appoggiato sull’altare portatile collocato davanti la parete destra.

Davanti ad esso, nei giorni di festa, ardeva continuamente una lampada alimentata con le elemosine raccolte dai «magistri seu procuratores» che in quell’anno erano Tiberio Vazzana e Maso Toscano. Il presule ordinò ad essi di provvedere, entro quattro mesi, a predisporre una piccola pisside d’argento da custodire nello stesso tabernacolo per conservare l’Eucarestia da portare agli infermi; un sacco di seta «ornatissimo» per riporla durante il trasporto in tale occasione; un lungo panno di seta affinché il sacerdote possa coprirlo e, entro il termine di dieci giorni, altresì predisporre un baldacchino per assicurare il dovuto rispetto al Santissimo Sacramento portato agli infermi.

La visita proseguì presso il fonte battesimale collocato all’ingresso della chiesa sulla sinistra, che conteneva l’acqua benedetta, davanti al quale era collocato il Sacrario. Il presule richiese che esso venisse circondato da una balaustra di legno e che il fonte venisse coperto con un panno di colore appropriato e che gli olii sacri e gli oggetti del rito battesimale venissero collocati in una finestrella sulla parete. Sulla parete vicina al battistero doveva essere collocata una immagine di San Giovanni Battista.

Esaminò quindi i registri parrocchiali dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni e dei defunti. La parrocchia contava 97 nuclei familiari e 470 anime, incluso il villaggio di Pavigliana. La raccolta delle elemosine e i proventi di alcuni lasciti consentivano di avere una rendita annua di sessanta ducati.

Quarantasei nuclei familiari della parrocchia si impegnarono a pagare 15 carlini come decima nel mese di agosto. L’arcivescovo diede disposizioni che contribuissero anche gli altri 17 «focularia» distanti dalla sede parrocchiale per mantenere due cappellani nelle chiese della Madonna Santissima di Riparo e di Prumo, versando annualmente cinque aquile e per assicurare le spese «d’oleo, cera, ornamenti e fabrica della Chiesa».

Proseguendo l’ispezione si portò quindi verso l’altare maggiore sul quale campeggiava una grande icona, dipinta ad olio, raffigurante la circoncisione di Gesù Cristo, ben composta sotto archi decorati e dorati. In esso si celebrava nei giorni festivi e tutte le domeniche dal vicario sostituto in suffragio dei benefattori. Inoltre, ogni primo venerdì dell’anno si celebrava una messa per l’anima di Adelanti de Allegra del villaggio di Terreti, che destinò un legato perpetuo di due monete di Sicilia e sopra un terreno in vicinanza del villaggio di Nasiti.

Si celebrava poi, il primo mercoledì del mese, una messa per i coniugi Luigi Bello e Francesca Basile che lasciarono un legato sopra la loro casa in Cannavò. Accanto alla chiesa c’era una casa lunga 40 palmi e larga 24 palmi, di proprietà della parrocchia, nella quale abitava il cappellano. Il presule rinnovò l’invito ai «magistri» di completare la «fabrica della chiesa» e il rifacimento della sacrestia oltre a completare la dotazione di paramenti sacri. Fu poi confermato, per amministrare i sacramenti, il presbitero Francesco Nardo, sostituto Vicario, che l’arcivescovo aveva avuto modo di conoscere nel corso della sua visita nella Città di Sant’Agata.

Fu poi impegnato a comporre alcune vertenze insorte tra alcuni proprietari terrieri e i loro coloni. Nella successiva Visita del luglio 1617, ad accogliere l’arcivescovo D’Afflitto fu don Antonio D’Aguì della città di Stilo nella Diocesi di Squillace, vicario sostituto nella parrocchia. Il presule raccomandò ai devoti presenti Giovan Domenico Caserta, Damiano Carisco, Toscano de Tuscano e Domenico Angelino di sistemare sopra il tabernacolo che conteneva la Santissima Eucarestia un baldacchino ricoperto con un panno serico.

Notando che quanto prescritto nella precedente visita, relativamente alla piccola pisside ed alla documentazione delle spese, non era stato eseguito dai procuratori eletti, ordinò che tutto venisse eseguito entro un mese. Per il fonte battesimale ordinò che, entro quattro mesi, fosse realizzato in marmo e munito di balaustra lignea, riscontrando anche che nulla era stato fatto come richiesto in precedenza. Il numero dei nuclei familiari presenti in parrocchia era salito a 101, ma si era abbassato il numero delle «anime» a causa di una crisi demografica che, dai dati del registro dei battesimi, attesta che in quel decennio il numero dei battezzati si era abbassato di circa cento unità.

Il presule rilevò che tra gli abitanti di quel distretto si era diffusa la necessità di una disgregazione dell’ambito parrocchiale, elemento che i «magistri» delle varie chiese avevano già evidenziato nella visita precedente con la richiesta di essere separati a causa di «inconvenienti e pericoli per la cura delle anime» dichiarandosi pronti a sostenere in proprio le spese ed il sostentamento del parroco.

La soluzione iniziale sembrò essere quella del ridisegno dei confini parrocchiali così espresso: «incominciando dalla parte di Ponente, quando si viene da Rheggio dalla Chiesa di S. Maria del Riparo inclusine, si cammina verso mezzogiorno per il vallone del Casale di Mosorrifa, et si esce sotto il casale verso il scirocco nella Contrata chiamata Cerro, et tirando abascio nella Contrata di S. Paolo per il giardino di Gio. Maria Spanò inclusine, et camminando verso tramontana si passa la parte del fiume per il giardino di Gio Alfonso Melito inclusine, et piglia ad alto alli fornaci di Antonino Bellè, et dillà s’abbascia per lo vallone di Sparella, includendo il serro di Castelli la Chiesa di S. Maria di Prumo, lo giardino di Rugnetta, Geronimo Calvari, Agustino Tigani, l’herede di Marco Dineri, con tutte quelle case, che sono nel distretto confinando con le parrocchie di Terreti Rheg.na, Mosorrova et Pavigliana, includendosi tutta la fiumara che sta nel sudetto circuito».

Gli abitanti compresi nei confini indicati dovevano contribuire al sostentamento della chiesa pagando un ducato l’anno, quelle di Riparo e Prumo un’aquila l’anno.

La curiosità | Un matrimonio a colpi di fucile

A conclusione della sua visita, nell’anno 1617, l’arcivescovo D’Afflitto ordinò al cappellano ed ai procuratori, di celebrare la messa una volta la settimana, il giorno di sabato disponendo inoltre che, entro un mese, fossero realizzate delle predelle lignee davanti gli altari e venisse collocata una croce in posizione mediana.

Riscontrando la mancanza di un coro nell’area presbiteriale, diede disposizione che venissero collocati alcuni banchi e la sede per il sacerdote per la celebrazione delle messe e delle funzioni serali. Sul campanile doveva essere collocata una campana di 120 libre (54,40 Kg).

Le due sepolture realizzate sotto il pavimento si mostravano decenti e ben chiuse e distaccate opportunamente dagli altari dove si celebrava ma mancava quella per i bambini, come prescritto nel nuovo Messale Romano e si invitarono i procuratori a provvedere in merito.

Inoltre, poiché l’acqua benedetta veniva tenuta in modo abbastanza indecente, dispose che, entro due mesi, si provvedesse a dotare la chiesa di due decorose e ornate acquasantiere in pietra da sistemare vicino l’ingresso principale e in ambedue si tenesse un aspersorio. Rilevato poi che il confessionale non era conforme alle indicazioni liturgiche, ordinò che lo si sistemasse secondo le regole sinodali e lo si ponesse nella parte mediana della chiesa.

Furono, altresì, dati tre mesi di tempo per allestire alcuni banchi per favorire l’ascolto della predica e dei servizi divini. Verificata che la chiesa era priva di sagrestia e che i Sacramenti venivano amministrati in modo scomodo e sconveniente, ordinò ai procuratori di provvedere, entro sei mesi, a realizzare una sagrestia, decente e ornata, sul lato sinistro dello stesso presbiterio accanto l’altare maggiore.

L’arcivescovo poi verificò l’inventario degli oggetti e dei paramenti sacri che risultava arricchito rispetto a quanto trovato nella visita precedente, e a prendere conoscenza dei pochi beni stabili in possesso della chiesa.

Dodici anni dopo, nella successiva visita fatta nel mese di maggio 1629, l’arcivescovo D’Afflitto venne accolto dal reverendo Domenico Chilà da Reggio, vicario sostituto parroco. Il presule nel visitare la Santissima Eucarestia notò che davanti ad essa ardevano delle lampade che venivano accese nei giorni di festa e mantenute con le offerte raccolte dai «magistri o procuratori» i quali garantivano anche le spese di manutenzione della chiesa e il sostentamento del cappellano raccogliendo in media 50 ducati l’anno.

Egli richiese ai devoti Pompeo Battaglia e Luca Chilà, di non spendere nulla, «anche se di modesta entità», se dapprima non avessero ricevuto disposizioni scritte e firmate dal cappellano e dai «magistri». Visitando il fonte battesimale ebbe a rilevare che quanto indicato in precedenza non era stato ancora realizzato anche se, rilevando la presenza di un ciborio ligneo che lo ricopriva e contenente l’olio sacro, si accorse che non veniva tenuto chiuso a chiave e che l’immagine di San Giovanni Battista nella parete adiacente non era stata dipinta.


PER APPROFONDIRE: La storia della parrocchia di Riparo Vecchio a Reggio Calabria


Nel presbiterio, oltre all’altare maggio re, c’era sulla destra un altro altare dedicato a Sant’Anna che era raffigurata, dipinta ad olio, su una grande icona e nel quale venivano celebrate messe con i proventi che derivavano dai «Censi di S. Anna».

Lo spazio interno continuava ad essere privo di quanto aveva ordinato nella visita precedente e l’arcivescovo ordinò che fosse nominato Niccolò Chilà a curarsi della Sacrestia, con uno sti- pendio di 5 ducati a carico dei «magistri» e, tra questi, il neoeletto Giuseppe Giacomo De Cara venne invitato a rispettare il rettore, come indicato nel Sinodo diocesano. La successiva visita pastorale venne fatta nel maggio 1632.

In quell’anno erano «magistri» Toscano di Toscano, Pietro Angelo Cara, Giuseppe Mullara che nominarono come cappellano il sacerdote Angelo Zangari. Se, dapprima, non erano bastati dodici anni per attuare quanto richiesto dal presule, anche questa volta i cam- biamenti all’interno della chiesa furono pochi.

Si era tuttavia accresciuta la dotazione di pararicale nel 1616 ed era stato ordinato presbitero, dopo aver conseguito gli ordini minori negli anni precedenti, il 31 marzo 1629. L’anno successivo venne nominato parroco di Cannavò. A lui successe il sacerdote Domenico Scafaria che amministrò la parrocchia per oltre 40 anni, tra il 1634 e il 1676. Fu lui ad accogliere, nel 1674, l’arcivescovo Matteo De Gennaro che visitò la chiesa soffermandosi dapprima davanti il tabernacolo per adorare la Santissima Eucarestia, poi nel fonte battesimale e nell’aula le cui descrizioni confermano quelle fatte in precedenza.

Non ci sono pervenute altre notizie della parrocchia da fonti archivistiche ma, negli ultimi anni del Seicento, secondo alcune indicazioni pubblicate dapprima dallo storico Carlo Guarna Logoteta (Albo Reggino, 1864), poi dal canonico Rocco Cotroneo, (Rivista Storica Calabrese, 1903) e da Sebastiano Schiavone (Le antiche parrocchie, 1977) Cannavò fu teatro di un grave fatto di sangue.

Nella chiesa di San Nicola si stava celebrando un matrimonio, quando un cagnolino, sfug- gito al suo padrone che stava tra gli invitati, andò a sporcare l’abito della sposa. Lo sposo non seppe trattenere il suo malumore e, all’uscita della chiesa preso un fucile uccise la bestiola, divenendo a sua volta obiettivo di un colpo di fucile da parte del padrone del cane.

La sparatoria provocò molti morti tra cui, secondo il racconto popolare, anche il parroco. L’intervento dell’autorità giudiziaria, accorsa sul luogo per controllare la situazione, venne segnata dall’uccisione di un giudice il cui corpo venne gettato in un burrone.

L’intervento dell’esercito inviato dalla Regia Udienza per sedare il tumulto portò alla dispersione dei responsabili ed alla distruzione di gran parte del villaggio salvaguardando la chiesa.

Dopo il terremoto | Un Riparo per Cannavò

Le conseguenze della repressione successiva ai gravi fatti di sangue che si verificarono a Cannavò comportò una riduzione della popolazione, passata nell’arco di quattro decenni da circa 400 anime a circa 200 sul finire del Seicento.

La salvaguardia della chiesa non cancellò l’attività parrocchiale ma i dati dei registri parrocchiali mostrano una caduta nel numero dei battesimi. Dai 105 bambini battezzati nel decennio tra il 1661 e il 1670 si passò a 86, tra il 1681 e il 1690, ai 67 nel primo decennio del Settecento.

L’attività dei parroci proseguì in quegli anni e, oltre alla cura delle anime sparse in un territorio in parte disagevole, fu tesa a migliorare anche le condizioni economiche derivanti dalla gestione degli introiti che attraverso i «legati» consentivano di aggiungere nuovi proventi. I documenti economici a corredo delle «platee» dei beni citano lasciti collegati a doti matrimoniali, testamenti o legati relativi a case e terreni.

Per quest’ultimi le rendite erano collegate a quote sulla produzione complessiva o sulla produzione di specifici alberi come i gelsi, dei quali la fronda assicurava l’allevamento dei bachi da seta, l’ulivo, i fichi e altri alberi da frutto. I parroci che si alternarono, tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento, alla guida della parrocchia furono il sacerdote Domenico De Cara (1676-1708), cui seguì il sostituto sacerdote Filippo Clemente, il sacerdote Cristofaro Cara (1713-1738), il sacerdote Giuseppe Africa e il sacerdote Bruno Mario. Il terremoto del 5 febbraio 1783 colpì duramente il piccolo centro.

Nella «Valutazione dei danni» fatta dall’accademico Giovanni Vivenzio, inviato dal Re di Napoli, Cannavò venne inclusa tra i «Paesi distrutti, ed in parte lesionati». Nel piccolo villaggio quattro case vennero diroccate e le altre riportarono lesioni e l’economista Achille Grimaldi stimò in 20.000 ducati il valore approssimativo dei danni. Si registrarono quattro vittime su 107 abitanti. Nel 1788 la chiesa venne compresa nell’elenco di quelle da ricostruire insieme a quelle di Riparo e Pavigliana.

Lo stato della «parrocchiale Chiesa di S. Nicola del Casale di Cannavò» venne inserito nel lavoro istruttorio del Marchese di Fuscaldo che, raccolte tutte le indicazioni sulle rendite desunte dalla Platea generale redatta in occasione delle Visite pastorali, e da «rivelo» integrativi, ebbe a prevedere nel «Piano delle Parrocchie» una congrua ragguagliata di 100 ducati della quale doveva beneficiare il nuovo parroco non appena espletato il concorso, essendo la stessa retta dal sacerdote Don Antonio Borrello, «economo curato sin dal 4 settembre 1775».

Il Piano indicava che la parrocchia nel 1786 aveva 94 «anime» che, nel 1789, si erano poi ridotte a 90. La chiesa venne riparata e l’attività riprese. Nel 1827, una alluvione danneggiava la chiesa e alcuni terreni della parrocchia subirono danni. Il parroco sacerdote Pietro Granata, come si desume da alcuni documenti conservati nell’archivio diocesano, ebbe a rilevare che «un pezzetto di terra sabbioso, nella maggior parte è ridotto a letto di fiume, atteso l’ultimo alluvione, sito lungo il fiume di Cannavò, o sia Mosorrofa, territorio di S. Agata in Gallina».

Il parroco, poiché quel terreno non apportava «alcun utile alla parrocchia», dopo averlo fatto valutare dall’agrimensore Giacomo Nobile, lo diede in enfiteusi a «D. Luigi Vita, limitante, proprietario di Reggio, coll’obbligo di arginarlo e migliorarlo, e di corrispondere annualmente, e perpetuamente un canole di lordo D. 3».

Sul finire dell’anno 1828, Don Pietro Granata rinunziò alla parrocchia di Cannavò che, dopo l’espletamento del concorso, venne affidata dall’arcivescovo Emanuele Bellorado a Don Luca Lazzarino che apparteneva alla Comuneria di Sant’Agata. Ma da lì a qualche anno, nonostante le animose sue proteste, il nuovo arcivescovo Leone Ciampa «uscito in S. Visita, stimò sopprimere detta Parrocchia di Cannavò, ed aggregare i pochi filiani a quella di Santa Maria del Riparo, limitrofa, e nel medesimo ambito» avendo riscontrato che la chiesa era «cadente».

Il parroco di Santa Maria del Riparo ebbe in consegna «tutti i sacri arredi» e alla sua congrua venne aggiunto un compenso di 15 ducati per il carico delle «anime aggregatigli». Nel marzo 1836, il sacerdote Giuseppe Caracciolo, padre spirituale del novello Conservatorio di Santa Maria delle Grazie, nella città di Reggio, richiese una delle campane della chiesa dell’abolita parrocchia “per poter così esercitare con maggior divozione le funzioni chiesastiche”.

Ebbe parere favorevole dal Vicario capitolare, canonico Tobia Sirti, a condizione di restituirla su richiesta. Intanto l’istanza avanzata per avere un contributo per riparare i danni alla chiesetta era andata avanti e, nel 1838, il Ministro della Real Segreteria di Stato degli Affari Ecclesiastici, comunicò che su ordine del Re di Napoli, era stato emesso un mandato di trecento ducati «per impegnarsi al compimento della parrocchiale chiesa di Cannavò». I fedeli, nel 1854, iniziarono a chiedere il ripristino delle sede parrocchiale manifestando le difficoltà di raggiungere Riparo, «separata da un impetuoso torrente».

Nel 1956, la chiesa aveva saltuariamente ripreso a funzionare e in essa vi celebrava il sacerdote Orazio Sorgonà di Mosorrofa. Dal primo gennaio 1857 il villaggio di Cannavò venne staccato da Cataforio passando al Comune di Reggio condizione che agevolò il ripristino della sede parrocchiale e l’anno successivo l’arcivescovo Mariano Ricciardi nominò il sacerdote Saverio Rossi parroco di Cannavò. In occasione della Visita pastorale del 1859, egli nel rispondere al questionario descrisse così le condizioni della Chiesa: «La sua forma è bislunga, la sua struttura è semplicissima priva d’abbellimenti. La sua lunghezza è di palmi 56 e la sua larghezza palmi 24. I suoi confini sono la strada pubblica al prospetto, e, dalla parte opposta, i fondi del signor D. Lorenzo Crisarà, i quali la Chiesa risentiva qualche incommodo per l’umido che tramandavano i detti fondi; ma noi abbiamo fatto il fossato in tutta quella parte che ci noceva nella profondità di palmi 12 circa». Seguiva la descrizione dell’interno: «gli altari sono due del titolare S. Nicola, e l’altro sotto l’invocazione di Maria Addolorata…eretto in pia aggregazione».

Il parroco Rossi dotò la chiesa del pulpito, del confessionale e di un’acquasantiera marmorea. All’interno vi erano due sepolture, «una per le donne, e ragazzi, e un’altra per gl’omini». Accanto alla parete laterale Nord si ergeva il campanile «architettato a contenere due campane».

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