
Per la giornata del Jazz Francesco Cafiso e la Rhegium Orchestra
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Fiducia e scetticismo accompagnano la riapertura, parziale e incerta, del caso delle “navi a perdere”, connesso al traffico illegale di scorie radioattive e alla morte sospetta dell’ufficiale Natale De Grazia. Un milione di euro per riprendere le ricerche nei fondali calabresi più esposti. Tornano interrogativi irrisolti, tra rivelazioni sconvolgenti, silenzi istituzionali e la speranza di fare finalmente luce sulla verità.
Fiducia e, insieme, scetticismo. Sono contrastanti e racchiuse in questa sorta di ossimoro, le sensazioni che accompagnano la riapertura, anche se solo parziale e d’ancora incerto sviluppo, del caso delle navi a perdere e del traffico illegale di scorie radioattive. Una fitta ragnatela con tanti fili spezzati di trame con diramazioni internazionali, un caso tornato ad attualizzarsi quando era ormai considerato, almeno dai più, archiviato per sempre. Sul piano ufficiale a fare da starter in questa ennesima ripartenza è stato l’allora ministro dell’ambiente Sergio Costa, annunciando a sorpresa la destinazione da parte del ministero di sua competenza, attraverso la nuova Direzione generale per il mare e le coste, del fondo di un milione di euro per riprendere « immediatamente » la ricerca delle famigerate navi sui tre fondali calabresi principalmente coinvolti. Il modo migliore per onorare a 30 anni dalla morte « la dedizione e il sacrificio di Natale De Grazia, assieme al conferimento della medaglia d’oro ambientale, la benemerenza più alta della Repubblica » perché, ha tenuto a sottolineare Costa, « il ricordo e la commemorazione hanno bisogno anche della verità» .
La decisione governativa è stata soprattutto l’effetto delle rivelazioni sconvolgenti e inedite - sulla vicenda della morte dell’ufficiale di Marina collegata al traffico internazionale di materiali nucleari a scopo bellico - rese pubbliche da un’inchiesta giornalistica di Fanpage.it che avevano destato forte impressione e scatenato una ondata di reazioni, anche a livello parlamentare e governativo.
PER APPROFONDIRE: «De Grazia ucciso perché scomodo»
In particolare aveva fatto impressione un’immagine: quella raccapricciante del volto tumefatto, gonfio, con il naso schiacciato e grumi di sangue essiccato accanto alla bocca, riferita al cadavere di De Grazia. Il tutto a supporto della tesi, rafforzata da testimonianze palesi e fonti dichiarate “esclusive”, con voci e immagini video artefatte per non rivelarne l’identità, che l’uomo di punta del pool che indagava sui traffici attorno alle navi a perdere, in quella notte tra il 12 e il 13 dicembre del 1995 sarebbe stato sì ucciso, ma dopo essere stato sequestrato e brutalmente torturato. Doveva essere fermato a tutti i costi.
Spuntava dunque una terza verità, spiazzante, che si andava ad aggiungere o, meglio, a sovrapporre sia a quella di morte naturale, risultato delle due carenti autopsie condotte inizialmente dalla dottoressa Simona Del Vecchio, sia quella riferita alla causa tossica, sostanzialmente equivalente all’avvelenamento, emersa, a distanza di ben 17 anni, dalla perizia effettuata nel 2012 dal professore Giovanni Arcuri, prestigioso direttore dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Tor Vergata, per conto della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie, che la farà propria nella relazione dedicata alla morte di De Grazia, giudicandola « analiticamente motivata e scientificamente inattaccabile» .
Spiazzante anche la tesi secondo cui la ragione vera dell’omicidio dell’incorruttibile investigatore andava ricondotta al fatto che questi era sul punto di far saltare, con il sostegno dei magistrati, un traffico illecito di materiali nucleari tra Stati, che aveva scoperto setacciando le carte dell’indagine recuperate in porti come quello di Genova e La Spezia. È lì probabilmente che è nascosta la chiave di un mistero più grande. Ed è ora auspicabile che la Commissione d’inchiesta presieduta dall’onorevole Vignaroli riesca a dare quantomeno riscontro ad interrogativi nuovi, che si sono andati ad aggiungere a quelli cruciali rimasti senza risposta in questi 30 anni.
Dopo anni di indagini è forte il rischio di ritornare stancamente su sentieri già ampiamente battuti per poi perdersi nel mare di atti prodotti: da quelli delle varie commissioni a quelle dei documenti desecretati. Di pestare, in sostanza l’acqua nel mortaio. Un grande rebus mai risolto riguarda, per esempio, il rapporto tra De Grazia e i suoi superiori della Capitaneria di porto di Reggio Calabria ma soprattutto del ministero della Difesa a Roma e dei servizi di intelligence della Marina militare.
Legambiente, da tempo, chiede un monitoraggio scientifico del Mediterraneo per rintracciare eventuali relitti carichi di veleni. Oggi, il Ministero dell’Ambiente stanzia fondi per indagare i fondali calabresi, i più coinvolti, sperando di trovare almeno un “relitto-prova”. L’auspicio è che le nuove indagini, insieme alla Commissione parlamentare d’inchiesta, chiariscano le domande fondamentali su un caso che coinvolge interessi nazionali e internazionali enormi. Se davvero De Grazia fu ucciso perché troppo vicino a rivelare verità scomode, è doveroso far luce su complicità e reticenze. La riapertura delle ricerche, pur tra timori e incognite, è forse l’occasione per chiudere un capitolo buio e restituire verità e giustizia all’uomo che cercò coraggiosamente di proteggere il nostro mare e la nostra dignità.
* giornalista e componente del direttivo nazionale, Assemblea dei delegati Legambiente
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