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Un’opera storica avvincente, un mistero lungo cinquecento anni. È il romanzo “L’ombra di Michelangelo”, edito da Pellegrini. L’autore, don Enzo Gabrieli, presbitero della diocesi di Cosenza-Bisignano e parroco di San Nicola di Bari in Mendicino, si propone di investigare e promuovere una pagina storica inedita e che riguarda alcune opere d’arte custodite nel Museo diocesano. Una in particolare è attribuita al grande artista Michelangelo Buonarroti sin dal 1700; attribuzione postuma ma supportata da documenti notarili proventi dalla corte del Vicerè di Napoli che ne confermano anche la donazione alla Cattedrale di Cosenza.
Perché ha scelto di scrivere un romanzo per parlare del Cristo alla colonna attribuito a Michelangelo?
La pubblicazione del romanzo è stata legata all’ottavo centenario della cattedrale che abbiamo celebrato nel 2022. Un piccolo contributo culturale per promuovere una delle opere d’arte conservate nel nostro museo che è accompagnata da una tradizione e da una documentazione interessante sia nell’archivio diocesano che nell’archivio di Stato di Cosenza che attribuisce la paternità dell’opera a Michelangelo. Un tentativo di promuovere un’opera d’arte custodita nel nostro Museo Diocesano attraverso uno scritto e anche un lungometraggio che abbiamo realizzato. I documenti esistono davvero e sono stati i primi indizi che mi hanno aiutato a creare il filo d’oro che attraversa cinque secoli di storia passando da Firenze a Roma, dalla Terra Santa a Cosenza.
Il personaggio di Michelangelo appare inquieto…cosa insegna il suo “Michelangelo” agli uomini e alle donne di questo tempo?
Io direi che è un inquieto cercatore, in fondo è il percorso che fa il cristiano e in particolare il teologo. Il romanzo è stato un linguaggio attraverso il quale ho fatto parlare realmente Michelangelo attraverso le sue opere poetiche, le sue lettere, i suoi discorsi e anche quando la tradizione attribuisce a lui. Senza mai tradire la storia. Un approccio alla sua figura ma anche alla sua fede che riconosceva nelle sue opere l’intervento divino che come artista era chiamato a svelare. Il suo scolpire era togliere la materia grezza su un’opera che stava già dentro ed era cosciente che la sua mano era guidata dal Divino artista.
Il suo romanzo è un inno alla bellezza della sua città, Cosenza, e in particolar modo della Cattedrale. Secondo lei la via della bellezza è ancora la via maestra per testimoniare la fede?
Sì un inno alla bellezza di questa città, della sua grande tradizione culturale e di quello che è uno dei poli più importanti che la cattedrale stessa. Pietra su pietra e sarà presenta la storia dei grandi ma anche degli artigiani, la fede dei piccoli e dei pastori, è simbolo di quella comunione ecclesiale, di quell’edificio spirituale di cui parla San Pietro nella sua lettera e che dobbiamo sforzarci sempre di costruire. Credo che la bellezza sia il cemento che tiene unito la comunità che tende alla ricerca del più bello tra i figli degli uomini che Gesù stesso.
I beni culturali che ruolo possono giocare nella pastorale?
Hanno un grande ruolo nella catechesi, nel primo annuncio della fede e anche nella custodia di una tradizione che è passata attraverso tutte le tipologie dell’arte sacra: pittura, scultura, musica, poetica, artigianato… l’oggetto sacro non è ostentazione ma è tentativo di incarnazione e lavagna sulla quale leggere e interpretare un messaggio. È un grande aiuto l’arte figurativa così come la musica sacra alla pastorale. Essa eleva la mente e il cuore verso l’Altissimo. È la missione dei musei diocesani ma anche di ciascun parroco che custode di beni di grande preziosità che si ritrovano nelle nostre parrocchie. Proprio 10 anni fa monsignor Salvatore Nunnari volle e inaugurò questo museo diocesano ed una parte del romanzo è ambientata nei giorni dell’inaugurazione con dei riferimenti reali agli eventi che mi hanno aiutato a costruire la parte trama moderna. Spesso pastorale, cultura e comunicazione vengono accostate.
In che modo la comunicazione è a servizio della cultura?
La fede se non è comunicata è morta. La via della cultura è essenziale perché proprio attraverso essa la parola che si è fatta carne entra nella storia delle comunità e trasforma la massa in popolo che si ritrova in intorno alle tradizioni e ha i suoi tesori più belli. San Giovanni nella sua lettera testimonia che suo annuncio è una esperienza ricevuta e trasmessa. La comunicazione è un ambito della pastorale, la attraversa tutta e tocca la liturgia e la catechesi, l’arte, il culto e le tradizioni. Proprio attraverso la cultura di un popolo il Vangelo continua a farsi carne. Dio parla con la rozzezza del linguaggio umano, dice il Concilio, il Signore parla anche con i linguaggi dei popoli e connessi la fede viene trasmessa. Nel Cristo alla colonna c’è il ritratto dell’umanità sofferente.
A livello personale cosa le comunica quest’opera che ha voluto raccontare nel suo romanzo?
Guardando questa meravigliosa opera non più grande di 20 cm ho recuperato attraverso il romanzo una esperienza personale. Scrivevo di essa in un contesto di sofferenza, di ricovero in ospedale dove vedevo tanta umanità sofferente, legata alla colonna della malattia, soprattutto mi toccava il dolore dei piccoli e degli anziani soli. Nel Cristo alla colonna c’è l’annuncio dell’amore di Dio, c’è la condivisione con la nostra sofferenza umana ma anche la prospettiva redentiva che passa attraverso la passione. La passione non è solo dolore ma è anche l’appassionarsi di Dio che si è invaghito di noi e che ci insegna appassionarsi, che significa partecipazione, condivisione e anche impegno, per i fratelli che incontriamo sui sentieri della nostra vita. Ecco allora il significato e il motivo più profondo di questo romanzo, un thriller storico religioso e può servire ad un approccio con la fede o almeno le radici cristiane che caratterizzano la cultura italiana.
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