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14 luglio 1970, una data ancora impressa nella memoria dei reggini, soprattutto di quanti hanno vissuto una delle pagine più drammatiche della storia della città di Reggio Calabria.
Sono passati 53 anni dalla rivolta che infiammò Reggio Calabria e l'Italia intera, la più lunga e violenta del dopoguerra. I "Moti di Reggio", ricordati anche più semplicemente come i "Fatti di Reggio" ebbero il loro periodo più caldo da luglio 1970 a febbraio 1971: otto lunghi mesi di guerriglia che lasciarono sul campo cinque morti (il ferroviere Bruno Labate, l'autista Angelo Campanella, gli agenti Vincenzo Curigliano e Antonio Bellotti e il barista Angelo Jaconis), circa 2.000 feriti, un migliaio di arresti e denunce, danni per miliardi di lire.
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Oltre a una scia di eventi dalla matrice dubbia, come il deragliamento "del treno del Sole" Palermo-Torino all'altezza di Gioia Tauro il 22 luglio 1970 (6 morti e circa 60 feriti) o l'incidente stradale che provocò la morte di cinque anarchici (26 settembre 1970) su uno sfondo nel quale si è anche parlato di 'ndrangheta, servizi segreti, neofascismo.
La mattina del 14 luglio, un corteo spontaneo partì dal quartiere Santa Caterina. Da sei che erano all'inizio, divennero trentamila. E così Reggio divenne teatro di una guerriglia urbana senza precedenti. Ci furono scioperi (19 giorni solo tra luglio e settembre), cortei, attentati dinamitardi, assalti a prefettura e questura, chiusure prolungate di uffici, negozi, scuole, poste, banche; e ancora il blocco di porto, aeroporto, navi, treni, strade e autostrade.
In piazza confluivano giovani studenti, uomini e donne, papà, mamme, nonni, ma i cortei spesso sfociavano in scontri tra manifestanti e forze dell'ordine. Ci furono barricate, con i carri armati, gli M 13, che stazionavano nelle vie principali di Reggio e un afflusso di migliaia di militari (si parlò di diecimila) in assetto antisommossa. La città divenne un campo di battaglia, anche per la "durezza" con cui le forze dell'ordine provavano a placare le proteste.
In piazza scesero Demetrio Mauro, industriale del caffè, Amedeo Matacena, armatore privato dei collegamenti navali nello Stretto, e l'ex comandante partigiano Alfredo Perna. Fu anche la rivolta delle donne.
Importante il ruolo svolto, inoltre, dalla Chiesa reggina con a capo l'arcivescovo monsignor Giovanni Ferro che, tra polemiche e feroci attacchi, difese la protesta per il capoluogo, adoperandosi allo stesso tempo per alleviare le sofferenze dei cittadini e calmare gli animi dei più esagitati.
«Le storiche e dolorose giornate di Reggio per la difesa di incontestabili diritti». Così titolava L’Avvenire di Calabria sul numero del 25 luglio 1970, il primo all’indomani dello scoppio dei Moti di Reggio che descrive analiticamente quanto stava accadendo in città. Il cronista Piero Ravenna riavvolge il nastro con una testimonianza giorno per giorno.
Il 13 luglio è il giorno di Catanzaro capoluogo: alle 10 «si svolge la prima riunione popolare cui partecipa una strabocchevole folla» a cui, però, non partecipano i consiglieri regionali reggini. Un preludio a quanto accadrà il giorno dopo: «Uffici, negozi, banche sono chiusi; da Piazza Garibaldi parte un corteo che si ferma a Piazza Italia dove il sindaco Battaglia ribadisce il diritto di Reggio ad essere il capoluogo della Calabria».
Una cronaca consegnata agli annali di storia a cui si aggiungono le parole dell’arcivescovo, in un messaggio pubblicato proprio su L’Avvenire di Calabria del tempo: «Mi è apparso il volto autentico di Reggio, quello che rivela l’animo generoso di un popolo assetato di giustizia, ma paziente e forte, perché una grande fede ne illumina perennemente il cammino», scrive l’indimenticato monsignor Ferro, oggi Venerabile, che era appena rientrato in città dopo la morte del fratello. E ancora riferendosi al «dovere dell’ora» prosegue: «Riflettere seriamente e, sotto lo sguardo di Dio, operare decisamente in unità di intenti: ecco il nostro dovere di sempre ma specialmente in questa ora durissima, che esige chiarezza di idee e saldi propositi».
Il messaggio del presule è arricchito dalle riflessioni di Acli e Azione cattolica diocesana. In particolar modo, l’Acli provinciale denunciò la «responsabilità della classe politica» per quanto stava accadendo a Reggio Calabria in quelle ore: «A Reggio, i giovani hanno dimostrato generosità, coraggio, nobiltà di impulso e limpidezza di intenti ed hanno affrontato immani sacrifici, causati soprattutto dai metodi di pesante repressione della polizia, ignare delle nobili aspirazioni per le quali questi giovani si battevano e tecnicamente impreparata alle nuove forme di agitazione di piazza, emerse dai recenti movimenti contestatari».
Infine, l’Azione Cattolica del tempo, guidata dal presidente Bruno Caridi, stigmatizzò da subito le azioni di violenza. «In queste ore storiche e decisive per l’avvenire di Reggio, la presidenza diocesana di Azione Cattolica esprime tutta la sua solidarietà alla Civica Amministrazione impegnata in un’azione coraggiosa e responsabile perché sia riconosciuto alla Città, il legittimo ruolo di capoluogo della Regione, non per questione di campanile, ma di vera e propria sopravvivenza».
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L’Ac, però, «invita i cittadini ad astenersi da ogni intemperanza o violenza, perché la lotta sia continuata, sino al trionfo della giustizia, nell’ordine e nella compostezza ed esprime profonde condoglianze ai familiari del caduto Bruno Labate, vittima innocente».
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