Dal 14 luglio 1970 ai nostri giorni è passato mezzo secolo. Un tempo in cui, quella stagione di protesta, è stato riletta sotto diversi punti di vista e sulla quale, è indubbio, c'è una fortissima attenzione giudiziaria per alcuni risvolti che ne sono scaturiti. Ma i Moti di Reggio, per tanti - tantissimi - giovani di quell'epoca rappesentano la massima espressione della rivendicazione. Un atto di libertà, profondamente tradito, che però - a distanza di 50 anni - non si è affievolito, specie in chi quell'onda protestataria l'ha trasferita nel servizio agli ultimi.
Ne abbiamo parlato con Mario Nasone, presidente del Centro comunitario Agape, che in quegli anni - da ventenne - visse in modo limitrofo la protesta politicizzata. «Da ragazzo vivevo a Santa Caterina e ricordo l'ingresso dei carrarmati nel quartiere. Una scena davvero indimenticabile». Gli anni '70 erano il contesto socio-economico in cui muoveva i primi passi l'associazionismo, quando ancora nessuno parlava di volontariato. «I termini in voga erano altri - spiega Nasone - come apostolato, opere di carità». E il primo a crederci in quei "sessantottini" fu monsignor Giovanni Ferro che ascoltando il loro maestro - di scuola e di vita - don Italo Calabrò aprì la Chiesa agli ultimi.
«In quel tempo vivevamo l'esperienza del servizio in modo radicale; don Italo ci ripeteva: prima di rivendicare i diritti, bisogna pagarli in prima persona. Così la nostra dimensione di impegno si trasferiva nel vivere 24 ore su 24 accanto alle persone che volevamo aiutare. Dall'assistenza all'inclusione, diremmo oggi. E proprio in quell'anno avevamo iniziato la nostra attività a Melito Porto Salvo. Un giorno, tornando in Città, abbiamo incontrato le barricate a Sbarre - confida Nasone - era il segnale che la Rivolta stava raggiungendo livelli di scontro altissimi. Lasciammo lì la macchina e attraversammo il centro a piedi; una Reggio ferita, ma orgogliosa».
E la violenza divenne, per alcuni aspetti, uno degli spazi di quella protesta. «Ricordo con amarezza - commenta il presidente del Centro comunitario Agape - di quando un nostro amico fu ferito gravemente durante gli scontri. Soltanto monsignor Ferro e diversi sacerdoti "di piazza" come don Nunnari e don Spinelli evitarono che la situazione degenerasse. Se la Rivolta di Reggio non si è trasformata in un bagno di sangue, lo si deve solo alla Chiesa reggina». Che non stentò di spendersi anche nella lotta politica: «Don Italo Calabrò aveva un rapporto privilegiato col sindaco dell'epoca, Piero Battaglia. Poco prima del discorso in Parlamento dell'allora presidente del Consiglio, Emilio Colombo, il primo cittadino del tempo chiamò il sacerdote illustrando in anticipo i dettagli di quello che fu il famigerato "Pacchetto Colombo"». 15mila posti di lavoro. «Don Italo, ovviamente, disse che ripartendo dall'occupazione sarebbe stato più facile curare quella ferita. Ma non restò con le mani in mano...».
In che senso chiediamo noi. «Qualche anno più tardi, durante un convegno a Gioia Tauro in cui era presente Emilio Colombo, non più premier, ma comunque ministro, don Italo prese la parola davanti a tutti l'uditorio e disse: "Ci avete promesso la Liquichimica, il Polo Industriale, 15mila posti di lavoro. Va bene che non avete fatto nulla, ma almeno una cabina telefonica nei paesi della provincia reggina volete farla davvero?"». Una provocazione che fece cadere il gelo nell'aula dove si teneva il convegno. Alla fine dei lavori, poi l'incontro tra Colombo e don Calabrò. «Colombo, stringendo la mano a don Italo, gli disse: "Padre, ha ragione: con la provincia di Reggio Calabria siamo in forte debito"». Un conto ancora aperto a mezzo secolo di distanza.