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Dicembre è il mese simbolo della lotta all’Aids, un periodo dedicato alla sensibilizzazione sulla prevenzione e al contrasto della diffusione del virus Hiv. In particolare, il 3 dicembre, in occasione della Giornata mondiale contro l’Aids, si è voluto sottolineare il valore della prevenzione e l’importanza di condividere testimonianze che parlino di speranza e di amore.
«Il mio messaggio per i ragazzi è semplice: prevenire è meglio che curare. Guardandomi indietro, mi rendo conto degli errori commessi. Se avessi saputo quello che so oggi, non li avrei fatti. È importante stare attenti, aprire gli occhi e riflettere sulle proprie scelte». Con queste parole, Gaetano, uno degli ospiti della Casa Famiglia di Castellace, racconta il suo cammino verso la consapevolezza.
Dopo una diagnosi tardiva di Aids, ha trovato nella struttura non solo cure, ma una nuova speranza di vita: «Mi sono sentito subito a casa, come in una seconda famiglia. Oggi sto molto meglio rispetto a quando sono arrivato. Mi sento accolto e curato sia fisicamente che emotivamente».
Anche Sabrina, un’altra ospite della casa, ha vissuto un percorso difficile, segnato dalla tossicodipendenza e dall’abbandono. «Mi drogavo, vivevo per strada e mi prostituivo per mantenermi. Non avevo nessuno: mio padre è morto in carcere quando ero piccola, e io ho lasciato casa a 15 anni».
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Nonostante tutto, è riuscita a ritrovare una possibilità di riscatto: «Quando sono tornata ero disperata, ma mi hanno accolto ancora. Qui mi vogliono bene, tutti mi vogliono bene». Sabrina lancia un appello ai giovani: «State attenti a chi frequentate, non toccate droga nemmeno per cinque minuti. Basta una sola volta per cambiare la vostra vita, e rovinarvela».
Quelle di Gaetano e Sabrina sono testimonianze che si intrecciano con la storia della Casa Famiglia per malati di Aids di Castellace, nel cuore della diocesi di Oppido-Palmi. Un progetto nato agli inizi degli anni Novanta, quando don Pino De Masi, allora direttore diocesano Caritas, rimase profondamente scosso dalla morte di un giovane che aveva accolto e curato come fosse un figlio.
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Don Pino sentì che come Chiesa non si poteva restare immobili davanti al grido disperato degli ultimi. Ne parlò con il vescovo monsignor Crusco ed insieme a don Bruno Coccolo, allora Vicario generale, e al parroco di Castellace, don Serafino Violi, si impegnarono immediatamente per realizzare la prima Casa di accoglienza di tutto il sud Italia, la più grande per numero di persone accolte.
La Casa Famiglia fu inaugurata il 27 aprile 1996, e il 7 febbraio 1997 accolse la sua prima ospite, Francesca. Da allora, la struttura è diventata simbolo di accoglienza e speranza per i malati di Aids, in un’epoca in cui queste persone erano emarginate, temute e rifiutate dalla società a causa della paura verso la malattia.
Il progetto nato grazie all’impegno di don Coccolo, fondatore e anima della casa fino al 2018, «rappresenta ancora oggi un segno concreto di carità cristiana, destinato ai “poveri dei poveri”», spiega don Emanuele Leuzzi, presidente dell’Ente morale Famiglia Germanò a cui afferisce Casa famiglia. Un gesto particolarmente significativo in una realtà come Oppido Mamertina, «spesso associata ad episodi legati alla ‘ndrangheta, ma che qui testimonia il volto di una Chiesa attenta agli ultimi. L’accoglienza è il cuore della casa che si propone di ricreare per i suoi ospiti un ambiente familiare che spesso hanno perduto», spiega ancora don Leuzzi.
«Qui si offre amore, cure che altrimenti non potrebbero ricevere, e soprattutto si restituisce dignità a persone che hanno attraversato percorsi difficili. Non si tratta solo di dare una seconda possibilità, ma cento, affinché ciascuno possa vivere con serenità e rispetto fino a quando il Signore vorrà». La dimensione spirituale è parte integrante della missione della casa: «tutti sono accolti, indipendentemente dalla loro fede o dal loro orientamento. La casa è aperta anche a persone di altre religioni o a chi si trova in situazioni di marginalità sociale. Tutto è fatto nello spirito di Gesù Cristo, riconoscendo nei volti degli ospiti il volto di Cristo da servire e amare».
«Il mio percorso all’interno di questa realtà inizia nel 1995» racconta Donatella Grillo, assistente sociale e memoria storica della Casa Famiglia per malati di Aids di Castellace. «In realtà, però, tutto cominciò qualche anno prima, quando un sacerdote della nostra diocesi, don Pino De Masi, perse un giovane che era riuscito a tirar fuori dalla droga.
Marcello – questo il nome del ragazzo – si ammalò di Aids. La famiglia lo abbandonò, temendo il contagio, e don Pino si ritrovò da solo a seguirlo nei reparti di malattie infettive. All’epoca, l’unico reparto di riferimento era a Catanzaro. Quando Marcello morì, don Pino chiese all’allora vescovo di Oppido - Palmi, monsignor Giovanni Crusco di fare qualcosa per rispondere all’epidemia causata da quella malattia ancora sconosciuto. Il vescovo accettò e, insieme, decisero di creare una casa di accoglienza. L’idea fu condivisa con le parrocchie della diocesi. Partecipai alla prima riunione e mi offrii come volontaria».
«All’inizio – continua Donatella – non fu semplice. Da una parte c’era chi accolse l’iniziativa con entusiasmo, ma molti la osteggiarono. Castellace, allora nota per vicende legate alla criminalità organizzata, si oppose fortemente alla creazione della Casa. Anche noi subimmo diffidenze: le persone evitavano di passare vicino alla struttura, camminavano sull’altro lato della strada. Oggi, invece, Castellace è diventata un esempio di accoglienza. I nostri ospiti vivono serenamente, e la comunità locale li sostiene con affetto». La Casa Famiglia è diventata un simbolo di rinascita.
«Ricordo Patrizia, una ragazza di Napoli arrivata nel 1998» racconta ancora Donatella. «Aveva trascorso 14 anni in carcere e venne da noi perché aveva bisogno di un posto dove riposare. Poco dopo si innamorò di un altro ospite, anche lui con una storia difficile. Rimase incinta e, nonostante le paure e le critiche, decidemmo di accompagnarla. Il 9 febbraio 1999 nacque Bruna, sana e senza nemmeno gli anticorpi della madre. Per noi fu un miracolo. Da allora, la Casa, nata come luogo per malati terminali, è diventata una “casa della vita”».
Anche oggi, spiega Alfonsina Rechichi, direttore sanitario della struttura, il lavoro della Casa è fondamentale: «La malattia è cambiata. Rispetto al passato, chi contrae l’HIV ha una speranza di vita molto più lunga, ma è fondamentale la diagnosi precoce. Oggi sappiamo che chi ha una viremia pari a zero per sei mesi consecutivi non è infettivo. La terapia regolare permette una qualità di vita normale, ma purtroppo molti scoprono la malattia troppo tardi». «Il nostro impegno non è solo sanitario» continua Alfonsina.
«Abbiamo costruito una rete con gli ospedali della Regione Calabria e con altre strutture nazionali. La nostra Casa è un riferimento per tutto il centro-sud, accogliendo pazienti da varie regioni. Inoltre, lavoriamo molto sull’informazione, specialmente tra i giovani. In passato, grazie a don Bruno Coccolo, abbiamo sensibilizzato il territorio abbattendo pregiudizi e paure. Anche oggi organizziamo incontri e convegni per far conoscere la realtà dell’HIV, che spesso viene sottovalutata», ancora il direttore sanitario.
«La Casa Famiglia non è solo un luogo di cura, ma un posto dove si vive davvero» conclude Donatella. «Qui ci sono litigi, feste, gioie e lutti, ma soprattutto c’è la speranza. Ogni giorno viviamo momenti intensi che ci ricordano il valore della dignità umana. E ogni volta che un ospite ricomincia a vivere, capiamo che il nostro lavoro fa davvero la differenza».
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