Avvenire di Calabria

L’unico calabrese della missione, ha guidato il team delle Misericordie come disaster manager. In 34 tra disabili e feriti sono stati portati in Italia su aerei militari

Antonio De Simone, un reggino a coordinare le evacuazioni dei casi più fragili in Ucraina

Un’esperienza ardua, tutt’altro che semplice come De Simone ha raccontato ai nostri microfoni: «Ho incrociato occhi di bimbi che non potrò dimenticare»

di Federico Minniti

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L'intervista al volontario reggino Antonio De Simone, disaster manager delle Misericordie che ha coordinato una squadra di intervento al confine tra Ucraina e Polonia.

La testimonianza di Antonio De Simone, reggino da poco tornato dal confine con l'Ucraina

Trentaquattro persone potranno curarsi in Italia anche grazie al volontario reggino Antonio De Simone. Lontani dagli spari della guerra, esplosioni che spesso hanno causato in loro ferite fisiche ed emotive che porteranno per sempre con sé.

Come è arrivato a pochi chilometri da Leopoli?

Da oltre quindici anni sono un volontario delle Misericordie. La nostra organizzazione è stata attivata dal Dipartimento nazionale della Protezione civile in virtù di un nostro progetto che si chiama “Modulo DisEvac”. Si tratta di un modello d’intervento per l’evacuazione sicura e protetta di soggetti “special care”. Parliamo di persone con disabilità, con patologie gravi e feriti di guerra. Alla luce di questa possibilità, ho dato immediatamente disponibilità appena è scoppiato il conflitto russo-ucraino. Pochi giorni fa ho ricevuto la chiamata dalle Misericordie, il mio zaino era già pronto e sono partito.


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Con chi ha condiviso questa esperienza?

Eravamo in nove. Ho avuto l’onore di coordinare una squadra di intervento. Un team bellissimo di cui voglio citare due persone in particolare: una ragazza di Odessa, particolarmente colpita dal conflitto, che ci ha aiutato come interprete, e un sacerdote, don Calogero Falcone, parroco di Petralia Soprana, in provincia di Palermo. Accanto a noi c’era una équipe sanitaria composta da due medici rianimatori e un infermieri tutti provenienti dal Trentino Alto Adige.

Ci può raccontare cosa facevate al confine polacco-ucraino?

Lavoravamo in sinergia. Il coordinamento spettava alla Cross (Centrale remota operazione di soccorso) di Pistoia. L’elenco dei soggetti fragili da dover evacuare arrivava direttamente in Toscana che contattava noi. Immediatamente il personale sanitario effettuava una verifica delle patologie, delle condizioni e delle priorità. Sulla base del loro re- port ci organizzavamo con la nostra interprete e i referti territoriali in Ucraina per fissare un punto di incontro. Da lì venivano individuate le persone da evacuare, trasferiti prima in albergo e, poi, sugli aerei militari italiani per raggiungere il nostro Paese.


PER APPROFONDIRE: L'idea di don Panizza: «Cinquemila corpi di pace per portare in salvo i disabili dall'Ucraina»


È partito con bagaglio carico di esperienza. Cosa ha messo nel suo zaino durante il viaggio di ritorno?

Sono partito con la consapevolezza di assolvere al dovere di ogni volontario: il nostro posto è dove c’è la gente che soffre. Aggiungiamo l’orgoglio di essere l’unico calabrese e reggino della missione. Arrivato lì, mi sono reso conto che gli orrori della guerra li capisci solo se li vivi personalmente. Non potrò mai dimenticare i bambini incontrati, spesso già con patologie gravi, che scappavano dalle bombe tenendo tutto quello che hanno nelle buste di plastica, quelle che usiamo comunemente per fare la spesa. Incrociando il loro sguardo vedevi tutta la loro paura: una sensazione da far raggelare il sangue e che ti fa capire che danni combina l’uomo.

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