Avvenire di Calabria

Si può parlare di futuro di fronte a una diagnosi di autismo? Certamente e non mancano le storie a Reggio Calabria che lo testimoniano

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Ne abbiamo parlato con Giovanni Marino, Valerio Bascià e Nuccio Vadalà che quotidianamente si impegnano per rendere possibile tutto ciò

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Si può parlare di futuro di fronte a una diagnosi di autismo? Certamente e non mancano le storie a Reggio Calabria che lo testimoniano. Ne abbiamo parlato con Giovanni Marino, Valerio Bascià e Nuccio Vadalà che quotidianamente si impegnano per rendere possibile tutto ciò.

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Autismo e autonomia, le buone pratiche a Reggio Calabria

S ognare in grande, progettare a fondo. Se dovessimo sintetizzare con uno slogan il nostro incontro con Giovanni Marino niente sarebbe più calzante.

I suoi sogni/progetti sono tutti orientati verso la cura e l’autonomia delle persone autistiche che accompagna da oltre 16 anni con l’esperienza della Fondazione Marino a Melito Porto Salvo, culla grecanica della Città metropolitana di Reggio Calabria.

«Siamo una vera e propria farm-community: un ambiente dove sentirsi a casa, ma aperto al mondo esterno», spiega Marino presentando il centro residenziale sostenuto dalle rette pubbliche: «Fortunatamente siamo persone oneste: in questi anni non ho visto nessuno interessarsi su come vengono spesi quei soldi pubblici. Chi opera nella trasparenza vuole i controlli e questi, probabilmente, sono la più grande pecca del sistema pubblico locale».

L’esperienza della Fondazione Marino, poi, è una grossa mano d’aiuto per le famiglie che, troppo spesso, rischiano di ritrovarsi imprigionate nell’autismo: «Mamme e papà soli che non hanno gli strumenti per fronteggiare le sfide quotidiane per questo è nata la Fondazione», chiosa l’ingegnere melitese.

Sentendo il “sognatore” Marino, infatti, l’essere in Calabria è tutt’altro che un limite: «Non è questione di campanilismo, ma è oggettivo che i passi in avanti fatti dalla Regione Calabria rispetto all’autismo la posizionano ai primi posti su scala nazionale».

Certo le risorse sono poche seppure il contesto normativo sia d’eccellenza: «Sull’autismo l’Italia ha una legislazione antesignana rispetto al resto d’Europa quello che manca è l’applicazione reale». In questo senso, un vulnus è rappresentato dalla scuola: «Troppo spesso si trovano insegnanti totalmente impreparati».

Questo perché non tutti i ragazzi con autismo sono ad alto funzionamento e spesso i comportamenti problema sono al limite con l’adeguatezza dell’ambiente scolastico: «Anche in questo senso il fare parte di una piccola comunità di 12mila abitanti ci aiuta molto».

Merito del reticolo relazionale, «qui ci conosciamo tutti», ma non solo: uno degli ultimi progetti della Fondazione Marino è rivolto agli studenti delle scuole medie normotipici: «L’obiettivo è comprendere e misurare la loro percezione dell’autismo e delle disabilità in genere».

Perché l’inclusione passa da una presa di coscienza collettiva: «Solo così l’autonomia non sarà compassionevole - stigmatizza Marino - le posso fare un esempio?». Accettiamo di buon grado ed ecco la sua risposta: «Stiamo lavorando a una piccola azienda agricola dove i lavoratori siano i nostri ragazzi: oltre alla produzione puntiamo sul consumo critico. Nei nostri sogni/progetti c’è anche uno spaccio dove commercializzare il frutto del loro lavoro».

Ettari di felicità e inclusione: un sogno in grande che - ne siamo certi - la Fondazione Marino trasformerà in tempi relativamente brevi in un progetto di cui andare orgogliosi.


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S vestito il camice, Valerio Bascià è un reggino che crede nella partita dei diritti. Lo si capisce quando parla di «fattore culturale» e non addossa colpe alla politica o alla burocrazia. Neuropsichiatra infantile, opera da vent’anni in ambito riabilitativo in strutture convenzionate.

Da termine sconosciuto a esperienza quotidiana: l’autismo è entrato nelle case dei reggini…

Partiamo con un dato: quasi 2 bambini su cento hanno un disturbo dello spettro autistico. Un numero abnorme “merito” della diagnosi precoce, ma non solo: l’aumento numerico in percentuale è costante ed è ormai cristallizzato dai dati ufficiali. L’accesso ai servizi, poi, ci da la conferma che il nostro territorio non fa eccezione: l’età in cui i bambini vengono valutati e poi diagnosticati è entro i tre anni dalla nascita.

Parlando di bambini è necessario parlare di famiglie. Come si sviluppano gli “aggiustamenti” dopo la diagnosi?

Si tratta di una diagnosi che incide sulla prospettiva di vita del bambino e della sua famiglia. I genitori devono ricalibrare le proprie attività per accompagnare il percorso di crescita dei loro figli. Dalla mia esperienza devo dire che le famiglie reggine si orientano abbastanza bene attingendo ad informazioni adeguate: questo è fondamentale. Rientrare in un sistema di “garanzia sanitaria” rappresenta il primo grande passo in avanti per il bene del proprio figlio.

A proposito di sinergie, come va il rapporto con la scuola?

La sinergia c’è e devo dire che è abbastanza valida soprattutto quando si riesce confrontarsi attorno al progetto del bambino. Facciamo spesso incontri con gli insegnanti di sostegno e l’Asp di Reggio Calabria particolarmente all’interno dei GLO (Gruppo operativo per l’inclusione) fondamentali per la stesura del PEI (Piano educativo individualizzato). Questo avviene e, ovviamente, l’esito dipende moltissimo dalla sensibilità delle varie componenti. Accanto a questo, però, parlando di scuola ci sarebbero altri due problemi da affrontare…

Quali?

La difficoltà a mantenere continuità didattica con la figura dell’insegnante di sostegno per motivi di nomine scolastiche e l’assenza di una formazione specifica dei docenti profilata proprio sul disturbo dello spettro autistico.

Allargando il ragionamento: cosa manca sul territorio affinché si possa realizzare un principio di uguaglianza e di autonomia?

Sotto il profilo sanitario mancano strutture di neuropsichiatria infantile, ma dal punto di vista culturale bisogna capire che la persona con disabilità non è “prestata” alla società, ma ne è parte integrante partendo dalle cose più banali e quotidiane. Manca la presa in carico comunitaria per far trovare facilitazioni tanto fisiche quanto culturali: questo si sviluppa attraverso la cultura della disabilità per non far capire che è una malattia, ma una condizione trasversale.


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Aggregazione e impegno pubblico quali antidoto a solitudine e ricerca di “veggenti”. Va dritto al sodo della questione Nuccio Vadalà, assistente sociale e socio fondatore della Piccola Opera Papa Giovanni di Reggio Calabria: parlare di autismo e famiglie può scadere nella retorica seppure la vicenda sia strettamente concreta.

Arriva la diagnosi e poi lo scoramento. Cosa fare?

Iniziamo col delineare l’arco temporale in cui questo accade: i disturbi dello spettro autistico non sono conosciuti alla nascita come avviene, ad esempio, con la sindrome di Down. È una notizia che sconvolge le giovani coppie quando il proprio figlio è piccolo, spesso dopo aver negato a sé stessi anche i piccoli “segnali” dei primi anni. Chiaramente è una bomba che esplode in casa e, proprio per questo suo effetto così “distruttivo”, non può essere contenuta nelle quattro mura.

A chi rivolgersi quindi?

Direi di getto a chi non rivolgersi: spesso c’è la corsa a “veggenti” e santoni di turno che vendono fumo facendo perdere anni alle famiglie. La via migliore è quello di imparare a essere parte di una famiglia più grande, quella composta dai genitori di altri figli autistici. Aggregarsi è la via migliore per non perdersi, per non abbandonarsi alla solitudine che imprigiona: è un tratto comune di molte mamme e di molti papà di condividere col proprio figlio la dimensione dell’isolamento e questo non fa bene a nessuno delle componenti, in primis al bambino.

Cosa offre il territorio di Reggio Calabria in tal senso?

Fortunatamente ampie fette di territorio sono coperte da servizi residenziali che riescono a dare una grossa mano d’aiuto alle famiglie. Si tratta di servizi ormai storicizzati dove c’è un accompagnamento costante nella crescita e che consente tanto ai genitori quanto ai figli di mettersi in un cammino comunitario che è il vero segreto per trovare l’equilibrio perduto all’indomani della diagnosi.

Sembra una situazione paradisiaca…

Nient’affatto. Le lacune ci sono specialmente riguardo l’aspetto diagnostico e sanitario. La trafila “naturale” che tutte le famiglie fanno le portano a doversi orientare quasi sempre da Roma in sù per avere le risposte che si attendono.


PER APPROFONDIRE: Autismo, Dio chiama tutti alla preghiera


Insomma, la strada è tortuosa. Alla fine del percorso c’è il “Dopo di noi”?

Parliamo di uno scandalo. Non mi vengono in mente parole alternative: c’è una legge, ci sono i fondi, ma non c’è la capacità (o la volontà?) di imbastire un percorso che sia credibile per le disabilità psichiche e psichiatriche. I percorsi di autonomia e, quindi, il pensare a un “Dopo di noi” autogestito vanno bene per le persone con disabilità fisica o lieve. Ma per soggetti con autismo a basso funzionamento come è ipotizzabile pensare di farli vivere da soli?

Cosa manca secondo lei?

Un impegno pubblico che sia tale. E con impegno pubblico intendo dire la presa di responsabilità da parte di un Ente pubblico che si deputato a gestire questi percorsi. Bisogna strutturare contesti di accoglienza per il “Dopo di noi” e non fermarsi a buoni propositi e nulla più. Esistono delle “buone prassi” sul territorio a cui ispirarsi? Certo che sì: una di queste è l’esperienza di Casa Gullì a Reggio Calabria dove sei persone con disabilità, quattro uomini e due donne, sperimentano la dimensione dell’autonomia in un contesto “protetto”. Un’esperienza virtuosa sostenuta esclusivamente dalle economie della Piccola Opera Papa Giovanni. Lo Stato non può fare finta di niente: gli esempi ci sono, basta seguirli.

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