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Massimo Giordano è un commercialista di Reggio Calabria che si occupa di aziende sequestrate o confiscate alla 'ndrangheta. Spesso l'unica via è il fallimento. E, da tempo, si è diffuso un modo di dire fastidioso: la 'ndrangheta dà lavoro, lo Stato lo toglie. Ma è davvero così?
Trent’anni fa, quando ha iniziato la sua carriera da amministratore giudiziario, fu considerato un folle dai colleghi. Da subito gli fu chiesto di «fare una scelta di campo». Uno schieramento dalla parte della giustizia e contro i clan di ‘ndrangheta - che gli è costata minacce di morte, lettere minatorie e una vita sempre sul filo del rasoio: «Siamo l’anello debole del sistema; comunque vada un procedimento, alla fine, la colpa è sempre degli amministratori giudiziari» dice.
È fondamentale comprendere l’enorme difficoltà che caratterizza la gestione delle imprese sequestrate o confiscate. A differenza del fallimento, dove si gioca a bocce ferme, qui siamo davanti a una dinamicità esplosiva dell’azienda.
A Reggio Calabria c’è un grande problema: la cultura d’impresa. Specifico meglio: non che non ci siano bravi imprenditori, ma la gran parte delle imprese mafiose sono disorganizzate, gli pseudoimprenditori pensano prima ai propri benefit e, poi, alla salute della loro azienda. Può immaginare cosa si trova quando si subentra in un caso di sequestro.
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Le problematiche sono molte. In ambito ‘ndranghetistico si tratta quasi sempre di ditte individuali vestite da Società a responsabilità limitata (Srl). Questo cosa provoca? Che tutti i comparti aziendali fanno riferimento alle decisioni dello pseudoimprenditore: fornitori, strategie di vendita e finanziare. È tutto a immagine e somiglianza del proprietario. Questo si acuisce in alcuni settori produttivi, come la Grande distribuzione organizzata e l’edilizia. Per chi subentra, quindi, gli equilibri sono molto delicati, soprattutto, se passiamo in esame il comparto delle risorse umane.
Nei primi sei mesi, l’Amministratore giudiziario ha l’obbligo di verificare l’impatto del “costo della legalità”. È vera e propria conditio sine qua non, in questa sfida, però, lo Stato che pure recita un ruolo attivo intervenendo con l’Amministrazione giudiziaria, non si fa in alcun modo “parte garante”.
Quale è l’elemento principe per un’azienda? Le risorse finanziarie. Un Amministratore giudiziario non dispone di nessun strumento per stare sul mercato. Giusto per fare un esempio: se un’azienda finisce sotto sequestro, le banche chiedono di rientrare immediatamente da un eventuale fido concesso e chiudono i rubinetti del credito. I soldi per arrivare a fine mese dove li trova un Amministratore giudiziario? Soltanto dal cash flow? E gli investimenti come si fanno? E se trovo, come mi è capitato, quindici lavoratori in nero come faccio?
Così il giorno dopo mi ritrovo quindici cause contro l’azienda che mi arrecheranno un danno economico letale per la sopravvivenza della società. È un cane che si morde la coda e aggiungo un altro elemento di valutazione. Se proviamo a regolarizzarli vuol dire darsi delle regole, con ordini di servizio e straordinari da autorizzare.
Il paradosso è che, spesso, a questo punto iniziano i problemi: fin quando il titolare dell’azienda è un mafioso nessuno protesta e vive condizioni lavorative inenarrabili, ma quando arriva lo Stato si inizia a spaccare il capello in quattro. Ma questo non l’unico paradosso, recentemente, mi sono imbattuto in un caso davvero particolare.
Ho regolarizzato cinquanta dipendenti raddoppiando il costo del lavoro per un’azienda della Grande distribuzione organizzata. Un giorno ho ricevuto una lettera dall’Inail che mi rimproverava per i dati trasmessi. L’Ente si preoccupava che «le retribuzioni dichiarate risultano notevolmente superiori rispetto a quelle denunciate per l’anno precedente». Una vicenda lapalissiana: lo Stato non riusciva a convincersi che si potevano raggiungere quei risultati.
Ho avuto modo di gestire alcune aziende confiscate per evasione fiscale in ambito sanitario. Potremmo apostrofarle come “cartiere” che “producevano” fatture false: vivendo l’azienda ho notato come alcuni costi fossero volutamente gonfiati e queste operazioni, seppure apparissero sin da subito molto dubbie, trovavano complicità nell’Asp di Reggio Calabria. Pur partendo da questa situazione iniziale siamo riusciti a ottenere buoni risultati.
Dal 2015, ad esempio, con un’azienda siamo riusciti a ripristinare la legalità, soprattutto rispetto ai pagamenti in nero. Passando da 100mila euro a un milione e mezzo sui conti correnti dell’azienda. Zero debiti, mantenimento di tutto il personale e rapporti con professionisti esterni tutti strettamente a norma di legge. I locali della struttura sono stati già rinnovati una volta e abbiamo acquistato diversi macchinari all’avanguardia.
Semplicemente l’azienda sequestrata esisteva davvero e aveva un suo perché sul mercato. Cosa impossibile da fare con le aziende-fantocci che sono specchietto per le allodole dei mafiosi.
Rompere determinati sistemi non è cosa facile. La fatica accumulata in questi anni è stata tantissima. Sono sincero: non so se consiglierei a un giovane che si affaccia al mondo professionale di fare la mia scelta. Questo lavoro, seppure mi ha dato tanto, mi ha chiesto di più.
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