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“Oggi chi si cura più dell’anima? Se la si menziona è solo per distrazione”. Si apre con un pensiero del filosofo rumeno Emil Cioran il libro del giornalista Domenico Quirico dal titolo “Il tuffo nel pozzo. È ancora possibile fare del buon giornalismo?”.
Nell’attraversare il fiume delle notizie – e nell’essere attraversati dallo stesso fiume – la domanda di Cioran, che diventa anche la domanda di Quirico, diventa una provocazione e un appello.
Nella narrazione mediatica della sofferenza e della morte si vorrebbe cogliere una vibrazione di umanità capace di smuovere la coscienza dall’indifferenza e dall’assuefazione.
Difficilmente questo accade e preoccupa quest’assenza perché è il segno di un vuoto nel quale si muove spesso l’informazione.
Domenico Quirico non si rassegna e si interroga come uomo che ha negli occhi i volti di persone morenti o frammenti di persone uccise là dove infuriano la guerra e l’odio.
“Che cosa è – scrive – la vita di un giornalista? Che cosa è stata la mia vita? Sono le persone che ho incontrato, per raccontarle. Ogni frammento della mia esistenza è composto da un frammento della vita loro, da mille piccoli terribili tratti di vita nel momento in cui, in un luogo e in un tempo, ci siamo incrociati per caso o per scelta”.
Le brutte notizie che anche in questi giorni vengono dalla porta accanto come dagli estremi confini del mondo, danno ulteriore forza a un altro pensiero di Quirico: “Per scrivere si scende nelle profondità insondabili dell’essere, il proprio e soprattutto quello degli altri. Scrivere, sì, appartiene al mistero. E invece…”.
Invece quello che solitamente accade nel modo dei media sembra lasciare spazio a “un giornalismo del sentito dire” dove l’incontro diretto con le persone non è ritenuto necessario per costruire una notizia, per scrivere un editoriale, per essere firma di successo.
Un buon giornalismo non può però esistere senza un supplemento di umanità e così una sana opinione pubblica non può esistere senza un risveglio della coscienza di ogni persona.
Quirico lo conferma con una professionalità che non gli impedisce di piangere accanto a un uomo morente anche se non può che essere testimone di una morte da raccontare. Di fronte a tragedie che si stanno consumando e annunciando c’è una responsabilità dei giornalisti e c’è una responsabilità dei lettori.
L’immagine del pozzo che Quirico richiama nel titolo del libro è per entrambi. È un invito a calarsi nella profondità del mistero della vita dell’uomo per emergere con la forza disarmata e disarmante di un’anima da menzionare non per distrazione.
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