Avvenire di Calabria

I fondi dell'8xmille sostengono il progetto del Giudice reggino. Ma lo Stato deve fare di più.

Davvero liberi di scegliere? «Serve la legge»

Parla Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, ideatore del Protocollo finanziato dalle Cei che offre un futuro ai figli di mafia

Davide Imeneo

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C'è una data impressa nella memoria delle donne o dei minori inseriti in contesti di ‘ndrangheta o mafia che desiderano cambiare vita e ribellarsi al destino per nulla ineluttabile della propria realtà criminale.

C’è una data che porta con sé un vento di cambiamento e di libertà per questa gente finora costretta a incanalarsi in un percorso scelto da altri, dai familiari, dal territorio. Da quel 2 febbraio 2018, la data in cui fu siglato il protocollo “Liberi di scegliere” sostenuto coi fondi dell'8xmille alla Chiesa cattolica, c’è un’opportunità per tutta questa gente: la libertà. Di lasciare famiglie, contesti degradati, vite proiettate a delinquere e se va bene al carcere quando non alla morte, per vivere davvero una vita in pienezza. È finito fin dentro una fiction riuscitissima, andata in onda su Raiuno, si sono scritti articoli su articoli e spese parole nelle commissioni parlamentari e tra gli scranni romani per dire, in sostanza, un unico concetto: quel protocollo d’intesa pionieristico va messo a sistema. Perché non si disperda la rete che tanto bene ha svolto il proprio compito, mettendo insieme magistrati, psicologi, formatori di ogni ordine e grado.

Qualcuno l’ha definito un vero e proprio pool educativo antimafia. Non a caso nel protocollo d’intesa sono stati coinvolti Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, Tribunale per i Minorenni, Procura per i Minorenni e Procura Distrettuale di Reggio Calabria, Procura Nazionale Antimafia e Libera e sostenuto dalla Conferenza episcopale italiana coi fondi 8xMille. Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria lavora da tempo ormai, dal 2012, perché crede nell’alternativa per questi minori e queste donne che vogliono uscire dal contesto mafioso.

«Il protocollo prevede la costruzione di una rete di sostegno sociale che è molto importante, fornisce un aiuto logistico, lavorativo e relazionale a minori, donne o interi nuclei familiari che intendono dissociarsi dalle logiche criminali e dalle loro famiglie».

In assenza di una legge sulla dissociazione è l’unico appiglio.

«Queste persone che versano in condizioni di grande difficoltà posso appoggiarsi solo a questa rete, non ci sono riferimenti normativi che governino questo fenomeno».

Il legislatore è un po’ indietro, non trova?

«Bisogna fare attenzione alle strumentalizzazioni: si interviene sempre caso per caso, bisogna accertare la reale volontà di cambiamento, è un percorso interiore che nessuna legge può farti fare se tu prima non lo hai maturato dentro di te. Con gli strumenti che abbiamo a disposizione stiamo facendo molto».

Quindi non volete portare via tutti i minori dalle famiglie mafiose?

«Macché, non stiamo mica dietro a una ideologia di Stato, noi siamo un Tribunale e valutiamo caso per caso. Interveniamo soltanto nelle situazioni di concreto pregiudizio. Non ci muoviamo mai in via preventiva soltanto perché la famiglia è mafiosa»

Quando si interviene?

«Quando il metodo educativo mafioso può pregiudicare la crescita emotiva del minore, il suo normale sviluppo psico– fisico, ecco noi lì interveniamo e nei casi estremi allontaniamo il ragazzino dalla famiglia».

Che riscontri ci sono?

«Positivi. Nella maggior parte dei casi le mamme, che sono donne provate dalla sofferenza di lutti e carcerazioni ci stanno dando una mano: alcune vogliono andare via dalla Calabria al seguito dei loro figli già allontanati e tutelati dal Tribunale per i minorenni, altre invece ci chiedono aiuto in gran segreto».

Cosa vi dicono?

«Allontanate i nostri figli! Anche se queste mamme decidono di rimanere in Calabria, vogliono che i loro figli si possano salvare, andandosene per sempre, vogliono sottrarli a quello che purtroppo è un destino ineluttabile di carcerazione, di morte, comunque la si veda di sofferenza».

C’è una storia su tutte che l’ha colpita?

«Ce ne sono tante»

Qualcuno è tornato a dirle grazie perché si è rifatto una vita migliore?

«Certo, alcuni tra quelli che abbiamo condannato per mafia, a cui abbiamo inflitto delle sofferenze, parliamo di minori che hanno fatto il carcere a seguito dei nostri provvedimenti. Subito dopo la galera, ci hanno chiesto aiuto per ricostruirsi una vita fuori».

E lei?

«Non io da solo, come Tribunale li abbiamo aiutati grazie al protocollo “Liberi di scegliere”, perché servono anche i fondi, non bastano le belle parole e i buoni propositi. Bisogna dire grazie anche alla Conferenza episcopale italiana che ha destinato i fondi dell’8xMille a questo progetto e a Libera oltre che al Dipartimento Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri».

Com’è la nuova vita di questi ragazzi?

«Normale, direi. Forse ancora meglio: riscattata. Tornano periodicamente, oggi vivono al nord Italia, la cosa bella è che non ci serbano rancore, nonostante abbiamo inflitto anni di carcere vengono qui con le fidanzate e vogliono condividere con noi il loro riscatto, questa nuova via a cui noi in minima parte abbiamo contribuito. Qualche donna ci ha anche affidato i suoi bambini piccoli in attesa del passaggio in giudicato delle sentenze e durante il periodo di carcerazione».

La rete è servita tantissimo.

«Li abbiamo custoditi all’interno di famiglie affidatarie e quando queste donne sono uscite dalla galera hanno potuto ricongiungersi con i loro figli che, nel frattempo, non sono stati abbandonati, ma sono rimasti fuori dalla Calabria in famiglie che li hanno accolti, accuditi e anche accompagnati in carcere periodicamente a trovare le mamme».

Storie diverse ma accomunate da grandi sofferenze.

«Alcune ragazzine hanno vissuto la fase del distacco in maniera davvero difficile, perché è sempre un momento traumatico che provoca sofferenza, ma adesso sono rinate.

Una di loro ha scritto al padre detenuto, un boss importante:

”Guardati dentro, che vita hai fatto? Io un giorno non vorrei ripetere la tua esperienza” ».

Parole forti.

«E concludeva: ”Queste parole non me le ha dettate nessuno, le penso io”. Il segno del cambio di mentalità».

E della libertà di scegliere…

«Molte di queste ragazze, andando via, hanno riacquistato consapevolezza delle loro possibilità e potenzialità. Possono scegliersi il fidanzato che vogliono, le relazioni che stanno loro più a genio, le amicizie. Ovviamente non vogliono più tornare».

Il protocollo è temporaneo, dura tre anni. Cosa si può fare per questi figli in maniera perentoria e definitiva?

«Servirebbe una legge nazionale che preveda un’adeguata formazione di tutti i soggetti coinvolti e che devono relazionarsi col minore e con le famiglie, abbiamo bisogno di assistenti sociali, psicologi, famiglie affidatarie pronte e tanti volontari antimafia come quelli di Libera. E poi ci sono le donne che vogliono dissociarsi, devono poterlo fare e andare via con i propri figli».

La Chiesa, invece, cosa può fare?

«La sua parte, spingendo al cambiamento. Il segretario generale della Cei ha mostrato una grandissima sensibilità e tutta la struttura della Cei sta fornendo un appoggio anche morale oltre che economico. È preziosissimo e contiamo che questo tipo di collaborazione possa continuare e incrementarsi»

 

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