Avvenire di Calabria

Il convegno promosso dal Movimento ReggioNonTace all'auditorium «Lucianum» di Reggio Calabria

De Raho: «Serve una legge per sostenere chi si dissocia»

Federico Minniti

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Famiglie di 'ndrangheta, cognomi che fanno paura, storie di omicidi e latitanze. Ma chi pensa a tutti quei figli che – senza colpe – si ritrovano a crescere in una casa-clan? Un tema, quello dei figli di 'ndrangheta che è esploso nella sua cruenta veridicità. Quasi due mesi fa, una venticinquenne reggina, Maria Rita si è suicidata dal quinto piano di casa sua. Era una Logiudice, nipote di boss sanguinari e bombaroli. Dalle ricostruzioni sull'accaduto a farle perdere la speranza proprio quel cognome. Pochi giorni fa un altro episodio, a Mileto, nel vibonese, dove il figlio del capocosca dei Petitto ha ucciso – a soli quindici anni – un suo amico e coetaneo.

Figli di 'ndrangheta, figli di quella «pedagogia mafiosa»: eppure su questo versante lo Stato non è inerme. Lo sa bene il movimento ReggioNonTace (RnT) che partendo proprio da questi fatti di cronaca ha voluto organizzare un incontro con chi – quotidianamente – fronteggia quelle famiglie di malavita. L'auditorium dell'Istituto Lucianum, nel cuore della Città dello Stretto, ha ospitato il confronto tra Federico Cafiero De Raho, procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, e Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i Minorenni reggino, video-collegato con l’auditorium. A moderare il dibattito, don Davide Imeneo, direttore de L'Avvenire di Calabria, inserto diocesano di Avvenire.

« Ogni reazione alla ‘ndrangheta deve fare notizia», ha affermato in apertura don Imeneo. Ormai è chiaro: la 'ndrangheta si può sconfiggere solo con la compartecipazione di tutti i soggetti sociali del territorio. C'è una continuità che prevede un indottrinamento dei minori. «La bonifica del territorio si fa con l’educazione che deve contrastare la “scuola” del malaffare - ha confidato Federico Cafiero De Raho ai presenti - in questi casi l’intervento di allontanamento è l’unica soluzione». Una sperimentazione radicale. Qualcuno, biasimando l'azione dell'ufficio, l'ha definita una «confisca di figli», ma Di Bella non è d'accordo: «Non facciamo pulizia etnica, ma, allontanando i figli da un contesto diseducativo, permettiamo a questi giovani di vedere che esiste un modo dove esiste una parità di diritti», spiega. «Le risorse umane degli uffici giudiziari sono insufficienti», conferma il capo della Dda reggina. Eppure a Montecitorio si discute della soppressione dei Tribunali per i minorenni. Una scelta che forse non tiene in considerazione alcuni numeri: sono già più di quaranta i provvedimenti applicati in cinque anni e in tutti i casi i minori sono usciti dalla categoria dei neet, ossia senza istruzione né lavoro. Una situazione che coinvolge anche, e soprattutto, la crescita psicologica dei ragazzi.

Un ruolo determinante nella svolta culturale è data dalle donne, in particolar modo da quelle “vedove bianche” ossia giovani che vedono il marito detenuto con condanne gravi come l'ergastolo. «C’è una sofferenza enorme - chiosa il presidente Di Bella - tante madri ci chiedono di essere aiutate». Una spinta che arriva dal basso, dal ventre di quelle famiglie di 'ndrangheta. «Ma lo Stato - sottolinea De Raho - non ha mai pensato a loro, ad accogliere chi si dissocia; in Parlamento c’è un disegno di legge che è bloccato». «La verità è che in troppi, in Calabria, non si curano assolutamente della ‘ndrangheta; - dice il procuratore di Reggio Calabria - altri pensano di risolvere il problema inviando gli assistenti sociali a casa. Ma in queste famiglie, abbiamo scoperto, non si può entrare se non scortati». E la Chiesa? «Solo Libera e la Cei - spiega De Raho - stanno sostenendo questo cambiamento; d’altronde i vescovi calabresi lo stanno dicendo: chi è ‘ndranghetista non può essere né un buon padre di famiglia né un cristiano». A concludere padre Giovanni Ladiana: «Nessuno pensi di poter dire che la magistratura e il Tribunale per i minorenni sta mettendo all’angolo questa Città».

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