Avvenire di Calabria

«Razzismi, accanimenti contro i deboli, aumento della povertà e del disagio sociale» questi i virus più pericolosi per il fondatore di Libera.

Don Ciotti: «Siamo chiamati a curare l’emorragia di umanità»

Redazione Web

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Migliaia di ragazzi e associazioni in corteo, canti e striscioni per la legalità, gli interventi delle autorità e la lunga lettura dei nomi delle vittime. Il 21 marzo, primo giorno di primavera, Palermo avrebbe dovuto ospitare la Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo di tutte le vittime delle mafie, organizzata da Libera. La marcia del 25°, visto che Libera è nata ufficialmente il 25 marzo 1995. A causa Coronavirus l’appuntamento è rinviato al 23-24 ottobre, ma per don Luigi Ciotti il 21 marzo rimane una «data segnata nelle coscienze prima che nei calendari». Con il fondatore di Libera ripercorriamo questi 25 anni di memoria e lotta alla mafia.               

Don Luigi Ciotti, questo 21 marzo senza Giornata della memoria e dell’impegno può essere comunque un’occasione per riflettere?
«Lo è senz’altro, tanto più in questo frangente difficile e drammatico, segnato dal lutto, dal dolore e dall’angoscia. L’impegno a essere comunità è l’anima di Libera, perché solo il “noi” può debellare le mafie, virus insediato nel nostro corpo sociale da 165 anni, complici altri virus che l’hanno favorito e rafforzato: la corruzione, le ingiustizie sociali, gli egoismi, l’indifferenza».

Qual è il suo messaggio per i tanti che avrebbero partecipato alla marcia di Palermo?
«L’invito è quello che accompagna ogni “Giornata”, da venticinque anni, e che si rinnoverà anche il prossimo ottobre: quello di viverla come tappa di un cammino e occasione per rinnovare e rafforzare un impegno quotidiano. Continuità, condivisione e corresponsabilità sono da sempre le parole che hanno orientato i nostri progetti e il nostro metterci in gioco. Insomma il cuore della nostra etica».

Come nacque l’idea della marcia e della lettura dei nomi delle vittime?
«Tutto partì in una delle prime celebrazioni della strage di Capaci. Quel giorno avevo accanto una donna i cui occhi, a un certo punto, divennero lucidi. Mi prese una mano e me la scosse: “Perché non pronunciano mai il nome di mio figlio!?”. La donna con il volto rigato di lacrime: era la mamma di Antonio Montinaro, uno dei poliziotti impegnati nella protezione di Giovanni Falcone. Ma per chi stava parlando dal palco era solo un anonimo “ragazzo della scorta”. L’idea della Giornata e della lettura di tutti i nomi nacque quel giorno. Un nome non è un orpello, è lo scrigno della nostra unicità e diversità. Ogni nome racchiude storie, speranze, incontri, emozioni. Essere chiamati per nome è il primo diritto che una vera comunità deve garantire a ogni suo membro, sia quelli che ne fanno parte sia quelli che vi troveranno accoglienza».

La prima marcia fu organizzata da Libera nel 1996, cosa è cambiato da allora?
«È cambiato il mondo ed è cambiata, giocoforza, anche Libera, con l’aumento delle adesioni, i nuovi piani di impegno, la moltiplicazione dei progetti e delle iniziative. Ma immutato è rimasto lo spirito: l’impegno condiviso nell’essere cittadini fino in fondo come ci chiede la Costituzione, custodi ma anche promotori del bene comune. Un impegno che si è fatto strada facendosi trasversale e che oggi include anche tante realtà ed espressioni di Chiesa, quella Chiesa che trova in papa Francesco l’incarnazione di un Vangelo proteso alla storia, attento ai bisogni degli oppressi, dei dimenticati e degli emarginati. Chiesa povera per i poveri. Chiesa che guarda il Cielo senza dimenticare le responsabilità a cui ci chiama la terra».

A che punto siamo, oggi, nella lotta alla criminalità organizzata?
«La magistratura e le forze di polizia stanno facendo molto, così come in passato. L’attuale procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, è un magistrato con una grande esperienza e uno sguardo al tempo stesso acuto e vasto, capace di leggere le realtà criminali anche nelle loro diramazioni e connessioni. È questo il nodo cruciale della questione mafia, denunciato da Libera almeno da più di dieci anni: le mafie non sono un mondo a parte ma parte del nostro mondo. Occorre dunque una rilettura del fenomeno criminale alla luce dell’osmosi che si è venuta a creare tra le mafie e una società che in troppi casi è civile più di nome che di fatto. Le mafie si sono “normalizzate”, hanno assunto sembianze e metodi meno allarmanti – a cominciare dalla corruzione – e al contempo c’è stata una “mafiosizzazione” della società».

Cosa intende per “mafiosizzazione” della società?
«Il furto a più livelli del bene comune, delle speranze e dei diritti di tutti. Ne è l’emblema il sistema economico dominante, colpevole di disuguaglianze inaccettabili, sistema che papa Francesco ha definito “di rapina” e “ingiusto alla radice”. La lotta alle mafie necessita dunque di un nuovo paradigma culturale, di una più adeguata consapevolezza e, ovviamente, di una politica all’altezza, capace di recidere le radici sociali e culturali di un male atavico che non ha saputo o voluto contrastare, in un gioco di opportunismi, omissioni e anche complicità».

Fra tutte le marce di questi anni, ne ricorda una in particolare?
«Sono moltissimi i ricordi e le immagini che affollano la memoria: volti, sguardi, parole. Di famigliari delle vittime, giovani, cittadini, funzionari dello Stato. E poi il calore con cui siamo stati accolti, nelle diverse città e regioni. Un cammino insomma, dove ogni passo è scaturito dal precedente e ha preparato il successivo. Difficile focalizzarne uno o qualcuno in particolare… Ma se devo proprio fare un’eccezione penso alla Giornata del 2009, a Napoli, preceduta il 19 marzo da quella trascorsa a Casal di Principe per ricordare insieme don Peppe Diana e recarci sulla sua tomba. Don Peppe continua a camminare con noi, a essere vivo nella memoria ma innanzitutto nell’impegno».

Il 25 marzo Libera compie 25 anni. Come legge il cammino percorso?
«Abbiamo fatto la nostra parte. Abbiamo cercato, nei nostri limiti, di essere pienamente persone e fino in fondo cittadini, uniti dallo stesso ideale di giustizia a prescindere dai riferimenti culturali o spirituali. Un compito e una responsabilità che sentiamo più che mai urgente… L’impegno a cui ci chiama quest’emergenza sanitaria – che ci auguriamo tutti si risolva prima possibile – non deve infatti farci dimenticare che nel nostro Paese, e non solo, c’è stata una perdita anzi un’emorragia di umanità: razzismi, accanimenti contro i deboli, aumento della povertà e del disagio sociale. Ora si tratta di tornare a essere più umani, unendoci nel segno di ciò che ci accomuna, nella condivisione dei bisogni e delle speranze». 

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