
Il libro: “Là dove termina la notte”, l’ultima fatica di Angelo Palmieri
Un raccontare e un raccontarsi, un porsi dinanzi ad una persona o ad una situazione
Una nuova indagine condotta da Trend Micro, multinazionale che si occupa di sicurezza informatica e ripresa da Technology Review, la rivista del MIT, analizza il business terrificante delle fake news e quanto queste possano screditare persone e influenzare opinioni. Anche se è difficile fare delle stime precise, si sa che la fake economy – così come è stata battezzata l’economia orbitante intorno alla disinformazione online – muove miliardi. Ma comprare fake news non costa, poi, così tanto. Possono bastare pure poche decine di dollari per mettere in Rete una notizia inventata, mentre i prezzi salgono quando si tratta di pubblicizzarla.
Questa ricerca parte da un presupposto: per produrre fake ci vogliono degli strumenti. Sistemi che, stando a questa nuova analisi, si possono reperire sul web in Cina come in Russia, nel Medio Oriente quanto nel mondo anglofono. E non è necessario rivolgersi al mercato nero della Rete, si trovano anche facilmente. Prendiamo, per esempio, di voler acquistare un articolo falso. Ecco che un distributore di contenuti cinese, Xiezuobang, ci dà la possibilità di comprarlo a circa 30 dollari. Quick Follow Now, azienda che parla inglese, ci permette di avere 2.500 account Twitter che condividono lo stesso link. Bastano 25 dollari. Vogliamo far comparire un video nella pagina principale di YouTube per due minuti? Ce lo consente la russa SMOService: si pagano 621 dollari e il filmato è visibile per tutti. Sempre all’ombra, virtuale, del Cremlino si trova un’altra compagnia interessante: Jet-s che si offre di manipolare le petizioni online, come quelle promosse da Change.org. 1.605 dollari si trasformano in 10mila firme, con poco più del doppio ne otteniamo 25mila.
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Firmato il rinnovo del Contratto collettivo nazionale di lavoro giornalistico tra Fnsi (Federazione nazionale stampa
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