Avvenire di Calabria

La Corte Costituzionale boccia il quesito promosso da Lega e Partito radicale. Il motivo? È una questione di “termini”

Il filo spinato della giustizia

Al netto di questo, però, serve aprire una seria discussione per far accrescere nel Paese una nuova fiducia nelle toghe

di Vincenzo R. Spagnolo

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Il filo spinato della giustizia, responsabilità penale dei magistrati in stallo. La Corte Costituzionale boccia il quesito promosso da Lega e Partito radicale. Il motivo? È una questione di “termini”. Al netto di questo, però, serve aprire una seria discussione per far accrescere nel Paese una nuova fiducia nelle toghe.

Il filo spinato della giustizia

«Iudex damnatur, ubi cum nocens absolvitur», sia condannato il giudice laddove un colpevole viene assolto, scriveva più di duemila anni fa il drammaturgo romano Publilio Siro. La potremmo archiviare come una delle prime esortazioni popolari a prevedere una qualche responsabilità per l’errore di un magistrato. Il tema, in dottrina e in letteratura, è dibattuto da secoli ed è legittimo che ciascuno abbia un proprio pensiero.


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Sul piano normativo, per restare agli ultimi decenni, politicamente la questione è sempre stata scottante e “divisiva” - soprattutto nelle fasi in cui il rapporto fra politica e magistratura, segnato trent’anni fa dall’inchiesta spartiacque di Tangentopoli, era più burrascoso -, non mettendo il Parlamento nella condizione più agevole per trovare soluzioni condivise. Un nodo che si è riproposto perché nei giorni scorsi, com’è noto, è stata depositata la sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato, a febbraio, l’inammissibilità del referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati, uno dei sei promossi da Lega e Partito Radicale e sostenuti da 9 Consigli regionali.

Il quesito puntava ad aprire alla possibilità di un’autonoma azione risarcitoria nei confronti del magistrato, per consentire al danneggiato di chiamarlo direttamente in giudizio, anziché – come accade adesso - agire indirettamente contro lo Stato, che poi può rivalersi sulla toga in questione. Nella sentenza, la Consulta ha ritenuto che in sede referendaria la tecnica “manipolativa” e “creativa” del ritaglio non fosse ammissibile: tagliando la frase “contro lo Stato”, si sarebbe determinata di fatto una disciplina giuridica nuova, senza però che fossero chiare procedure e modalità attraverso cui agire contro il singolo magistrato.

Sul merito della decisione, le valutazioni competono a giuristi e costituzionalisti. Va notato solo come– al netto di polemiche e prese di posizione ideologiche – l’esigenza di correttivi riaffiori ciclicamente nel Paese. Chi ha buona memoria ricorderà come, sull’onda d’indignazione suscitata dal caso Tortora, nel 1987 gli italiani invocarono un cambiamento, proprio attraverso un sì massiccio (oltre l’80%) a una referendum. Un anno dopo, arrivò la riforma del Guardasigilli Giuliano Vassalli, ma l’applicazione delle norme non diede piena risposta a quella volontà popolare.

E così nel 2015 su quella legge si dovette innestare una seconda riforma, con l’allora ministro Andrea Orlando, che tuttora, mantenendo “l’ombrello” dello Stato, ritiene il giudice civilmente responsabile qualora, nell’esercizio delle funzioni, adotti comportamenti, atti o provvedimenti illeciti con dolo o colpa grave oppure rifiuti, ometta o ritardi il compimento di atti d’ufficio. Il combinato disposto delle due leggi è stato sufficiente a rispondere al malessere sociale per i casi di “malagiustizia” denunciati nel Paese?

A guardare i dati, si potrebbe rispondere con un “ni”: dal 2010 al al 2021 si contano 129 pronunce, fra tribunali e Cassazione, con 8 condanne contro lo Stato, chiamato poi a rivalersi sulla singola toga. In percentuale, cioè, solo l’1,4% delle cause iscritte contro i giudici si è conclusa con una condanna definitiva.

Servirebbe un’ulteriore correzione di tiro? Il referendum appena bocciato lo chiedeva.


PER APPROFONDIRE: Il ministro Marta Cartabia ha incontrato Attendiamoci


Tuttavia, la mera sforbiciata di alcune parole avrebbe solo alterato la normativa, senza garantire un’immediata soluzione. L’equilibrio è delicato, perché tocca l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Da un lato, gli errori giudiziari vanno risarciti e, come diverse pronunce della stessa Corte hanno sancito, la Costituzione non assicura al giudice uno “status” di assoluta irresponsabilità. Dall’altro, fanno notare gli organi di rappresentanza della magistratura, è chiaro che se i ricorsi fossero automatici e diretti, pretese risarcitorie milionarie potrebbero condizionare l’agire del singolo magistrato e di riflesso rallentare quello della macchina-Giustizia.

E allora, cosa fare? È bene che il Parlamento rifletta, valutando se sia tempo di riprendere in mano la vexata quaestio, in questa fine di legislatura o nella prossima, per ritarare ancora il meccanismo, sulla scorta dell’esperienza di anni di giudicato.

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