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Oggi, lunedì 17 aprile si celebra la Giornata mondiale dell'emofilia, una malattia rara, congenita ed ereditaria del sangue che è provocata da un deficit di alcune proteine della coagulazione. Grazie all'impiego di nuove tecniche, oggi la qualità di vita dei pazienti è migliorata. Presso il Grande ospedale metropolitano di Reggio Calabria - al presidio Morelli - opera da anni un centro all'avanguardia. Siamo andati a conoscere che contribuisce a rendere migliore la vita di molti assistiti.
Soltanto 60 pazienti, ma un mondo di assistenza, un rapporto medico-paziente che si sviluppa negli anni: dalla diagnosi da bambini alle varie tappe del processo di crescita. Ecco l’altro volto dell’emofilia, la condizione congenita che non consente al sangue di coagularsi efficacemente e che a Reggio viene trattata all’interno dell’Ospedale Morelli, nel Centro di Emofilia che fa parte della più ampia struttura dedicata alla microcitemia, emostasi e trombosi del reparto di ematologia.
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A dirigere la struttura di microcitemia è il dottor Giuseppe Messina, ma a seguire i 60 pazienti emofilici in cura al Grande Ospedale Metropolitano è il dottor Gianluca Sottilotta, che da oltre 20 anni dedica la sua carriera professionale proprio a questa condizione rara, che affligge principalmente persone di sesso maschile dalla nascita.
Una condizione che, specialmente negli anni passati, rischiava di essere invalidante e di comprimere enormemente la qualità di vita dei pazienti, ma il cui trattamento ha recentemente conosciuto un promettente scatto in avanti, consentendo un netto miglioramento delle condizioni quotidiane dei pazienti.
«Se nel passato, 20 anni fa, la terapia era piuttosto pesante per il paziente e per la sua famiglia - conferma il dottor Sottilotta ai nostri microfoni con infusioni che avvenivano ogni due giorni, e dobbiamo immaginarci cosa questo significare specialmente per i pazienti di età pediatrica anche a livello sociale e psicologico, oggi i farmaci che abbiamo a disposizione sono a lunga emivita: un’infusione ogni settimana o ogni due settimane. E la situazione è già in evoluzione: esistono già farmaci sottocutanei la cui efficacia arriva anche a 4 settimane, e sono in fase avanzata di sperimentazione delle terapie geniche che consentiranno addirittura una “guarigione” temporanea per lunghi periodi di tempo dalla malattia e andranno addirittura a sostituire questo tipo di terapie profilattiche che abbiamo praticato fino ad oggi».
E sul territorio calabrese? Che vita vivono le poche centinaia di pazienti emofilici? «Dobbiamo dire che la Calabria è tutto sommato una regione fortunata - racconta ancora il dottor Sottilotta - perché vi sono addirittura tre centri dedicati. In Sicilia, per esempio, ve ne sono appena due per una popolazione molto più estesa».
La Calabria dunque ha una tradizione che risale agli anni ‘80 in termini di assistenza al paziente emofilico, «tuttavia negli ultimi anni, come tutta la sanità pubblica, stiamo assistendo a cambiamenti di organico che mandano leggermente in sofferenza il sistema, anche se siamo fiduciosi nel lavoro della direzione».
Livelli di assistenza alti, dunque nella nostra regione, ma forse una sensibilizzazione che potrebbe essere incrementata, nonostante l’ottimo lavoro delle associazioni dei pazienti, e che è importante specie per quelle famiglie che si trovano ad affrontare una diagnosi di emofilia nel proprio bambino: «In questi casi il pediatra che riscontri sintomi compatibili - conclude Sottilotta - deve dirigere la famiglia al Centro emofilia più vicino per fare diagnosticare il proprio bambino, dove, una volta accertato il tipo di diagnosi, si provvederà ad avviare la profilassi più adatta alla condizione del piccolo paziente».
La professoressa Sabina Frisina è membro del direttivo dell’Associazione emofilici, la realtà che da anni riunisce le famiglie che condividono questa condizione. È mamma di due ragazzi di 17 e 13 anni, entrambi emofilici e in cura nel Centro del Grande ospedale metropolitano reggino. Portatrice obbligata della mutazione, in quanto figlia di padre emofilico, ha dunque una lunga esperienza di contatto con questa condizione. Un’esperienza che l’ha condotta, alla diagnosi dei figli, a scegliere di attivarsi per rendere la loro vita un po’ più semplice.
«Il fatto che i miei figli fossero curati qui - racconta - mi ha dato possibilità di essere a contatto con gli altri pazienti, per poi creare l’associazione che ha lo scopo primario di non far sentire solo chi soffre di questa malattia o è coinvolto in quanto familiare. Un altro scopo dell’associazione è quello di dar vita a iniziative che servono a innalzare la qualità della vita per le famiglie emofiliche».
Anche il percorso personale della donna e della sua famiglia è stato scandito dall’impegno in questa associazione che ha “normalizzato” la vita dei figli, al di là della sfida rappresentata dall’emofilia: «Il genitore o il paziente esperto può fare da guida attraverso le sfide che i più giovani vivono nel quotidiano - racconta ancora Sabina Frisina - e l’associazione ha proprio questo ruolo, di favorire questa trasversalità».
I miei figli hanno avuto un vantaggio, un aiuto specialmente all’inizio nel non sentirsi soli, incontrando altri piccoli pazienti. Anche le attività sportive come il nuoto, che è una delle poche attività sportive che gli emofilici possono praticare in sicurezza, sono state organizzate negli anni dall’associazione e, come le altre attività ai ragazzi di percepire la propria vita nella normalità». Una normalità che però «non esiste».
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«Chiunque di noi ha delle sfide personali, delle contrarietà che deve affrontare - spiega ancora Sabina Frisina - non c’è una differenza tra l’emofilia e altri problemi che una persona considerata “normale” deve affrontare giornalmente. Questa è una realizzazione che i miei figli hanno fatto presto. Loro sono riusciti a sviluppare quella resilienza che discende proprio dall’accettazione della malattia. Sono persino autoironici. Un’accettazione che è dovuta arrivare anche da noi genitori: anche se sapevo di avere possibilità di trasmettere malattia per me è stata una tegola, il primo passo è sempre accettare un percorso che può essere complesso ma non deve essere meno normale di quello degli altri».
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