Avvenire di Calabria

Roberto Di Palma, procuratore facente funzioni del Tribunale per i minorenni apre una riflessione provocante

Il magistrato: «Minori e reati? Occhio alle famiglie adolescenti»

Federico Minniti

Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram
Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram

Di chi è la responsabilità? Mia, tua. No, forse vostra. Entrando nello studio di Roberto Di Palma, procuratore facente funzioni presso il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, ci potremmo aspettare un atteggiamento inquisitore. Invece, quando parliamo dei casi di violenza tra i minori, il magistrato di lungo corso sveste la toga per indossare i panni dell’adulto. Sì, perché a furia di ricercare le cause che scatenano comportamenti scorretti o addirittura illegali, l’attuale procuratore reggino si è scontrato in vuoti educativi incancreniti. Le definisce “famiglie adolescenti” parafrasando il titolo di un libro cult di Massimo Ammaniti.

Chi sono i ragazzi che arrivano in Tribunale?

Occorre delineare almeno tre “categorie”. In primis, ci sono quei ragazzi che un tempo sarebbe stati definiti come «indisciplinati». Totalmente estranei a contesti mafiosi o di degrado socioeconomico. Spesso e volentieri per assenza di figure familiari forti intraprendono strade sbagliate: risse, furti e bullismo sono alcuni dei reati più frequenti. Altri casi emergenti riguardano i reati a sfondo sessuale, una vera piaga per i nostri tempi: parecchi fascicoli vengono iscritti per pedopornografia e revenge porn.

Poi ci sono quelli che lo slang mediatico definisce “baby-gang” o “rampolli di mafia”?

Rapine, estorsioni, ricettazione, ma anche lesioni personali che però vanno lette in un’ottica associativa. In loro conta tantissimo l’estrazione familiare o anche il territorio da cui provengono: sono atti prodromici per diventare ‘ndranghetista. Si tratta, usando il gergo mafioso, di “azionisti” che vogliono mettersi in mostra agli occhi dei clan. È un vero e proprio serbatoio per le famiglie mafiose con un risvolto ancora più triste: questi giovani non si rendono conto che diverranno dei “vuoti a perdere” che una volta usati verranno “parcheggiati” dalle ‘ndrine. A questi si affiancano, invece, l’espressione giovanile della borghesia mafiosa i cui reati sono più caratteristici e organici all’organizzazione malavitosa.

Una “vita spericolata” pubblicizzata sui Social network...

Uno dei primi step della crescita è l’inserimento, cioè che ciascuno si senta accettato e inserito nel gruppo. Lechallenge, le sfide che gli adolescenti si lanciano sui Social network, sono il punto di incontro tra l’essere e l’essere riconosciuto. Che poi è una forma antropologica vecchia quanto il mondo: parliamo di iniziazioni e battesimi. Oggi viene mediato attraverso uno smartphone; l’uniformazione estetica, d’altronde, oggi è evidentissima: stesse scarpe, stessi jeans, stesso maglione. Questo ha un riscontro anche sotto l’aspetto dei reati: chi nasce in determinate realtà, non può non fare furti. Lo stesso avviene per i reati sessuali: spessissimo sono situazioni vissute e sviluppate in gruppo.

L’età del consumo delle droghe pesanti è crollata. Perché avviene?

Banalmente potremmo dire che è un processo di emulazione: se il mercato offre, il pubblico consuma. Però dobbiamo fare un altro tipo di riflessione: guardiamo gli effetti a valle senza capire cosa succede a monte. Ci spieghi meglio. C’è una grande assenza della struttura familiare. I ragazzi non vengono più seguiti: c’è un rimpallo di responsabilità tra famiglia e agenzie educative. In sostanza: mancano i punti di riferimento. Le posso fare un esempio?

Certamente.

Da ragazzo, io sapevo di essere controllato dalla mia famiglia. Oggi, purtroppo, questo non avviene: la notte di San Lorenzo, al Pronto soccorso arrivano ragazzi di 12, 13 e 14 anni in pre-coma o coma etilico. Quando gli operatori sanitari chiamano a casa, sa qual è la risposta dei genitori? «Veniamo più tardi non appena ci svegliamo». Questi sono fatti: le conclusioni che traggono sono oggettive. Un disinteresse così marcato da parte dei genitori che non si preoccupano preventivamente di cosa fanno i loro figli e neppure di comprendere cosa sia accaduto successivamente. C’è una grossa carenza di “presenza” nella vita dei loro figli: parliamo già da quando sono bambini. L’essere genitore non è un interruttore della luce: è questione di credibilità ai loro occhi. Non dimentichiamoci che i figli sono dei giudici spietati di fronte alle mancanze dei propri genitori.

Articoli Correlati