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Il 12 agosto di 119 anni fa nasceva a Maropati, nella Piana di Gioia Tauro, Fortunato Seminara. Fine intellettuale, seppe leggere l’animo degli ultimi. Definito, non a caso, il padre del “Neorealismo” degli anni Trenta.
Un ritratto di Fortunato Seminara del quale oggi ricorre l’anniversario della nascita, ce lo fornisce la poetessa reggina Gilda Trisolini con la quale l’intellettuale pianigiano intrattenne fitti rapporti culturali. Il primo incontro con lo scrittore nato il 12 agosto del 1903 a Maropati, la poetessa reggina lo ebbe negli anni cinquanta, come la stessa ricorda in un suo articolo pubblicato sull’edizione di novembre 1985 della rivista culturale “Idea”.
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La Trisolini ricorda i «suoi occhi che vi guardano nel momento del dolore, del “vostro” dolore». La parola dello scrittore, aggiunge alla sua descrizione, sembra talvolta «sbocciata dalla terra, perché in fondo è proprio essa, la terra, a darti tutto, e fango e fiori, e vale la pena amarla e vederla come Seminara la vede, generosa protettrice e custode di vita e di morte». In questo racconto è racchiuso in sé lo spirito che ha animato la produzione letteraria di colui che, non a caso, è stato definito il “padre” del Neorealismo degli anni trenta. Un nuovo corso a dare l’avvio col romanzo “Le baracche”, scritto nel 1934, ma dato alle stampe solo nel 1942 per il veto del fascismo.
In quest’opera, più che un romanzo una vera e propria denuncia, Seminara metteva a nudo, in un’aria di lirismo carico di fatalità, passioni elementari e crudeltà subite da un mondo, di miserabili, di straccioni, di affamati, realtà delle masse contadine meridionali del tempo. La tematica, trova respiro più ampio ne “Il vento nell’oliveto” del 1951 e, in modo particolare, ne “La masseria” (1952), romanzi in cui vi sono pagine di forte scavo psicologico, soprattutto nella direzione dell’incomunicabilità, del rancore individuale, del pessimismo sociale che pure aprono a barlumi di speranza e di fiducia nel futuro.
In tutta la sua opera lo scrittore indaga sulle cause dell’arretratezza della Calabria, sullo squilibrio tra Nord e Sud, mette il dito nella piaga delle condizioni degradate del Meridione. Seminara tuttavia, come ha evidenziato il critico letterario Giorgio Manacorda, ha avuto un merito. Non ha ridotto a ”simboli” i suoi personaggi, lasciando a ciascuno la propria individualità, «senza indulgere né all’uniforme soggezione de fatti umani ad un fato impersonale che li determini, né all’esaltazione apologetica di volontà eroiche o posizioni sociali».
Così come accaduto per altri grandi autori calabresi, anche Fortunato Seminara, subito dopo la sua morte avvenuta nel maggio del 1984 a Grosseto, presso la casa del figlio Oliviero, è stato presto ignorato dalla case editrici, convertitesi ad una logica esclusivamente commerciale. Eppure, nel corso della sua vita, grazie alla sua produzione di romanziere e saggista, ha ottenuto l’apprezzamento di letterari, critici e intellettuali del suo tempo, come Corrado Alvaro, Ignazio Silone, Elio Vittorini e Italo Calvino, il quale di lui scrisse un commovente ricordo pubblicato su “La Repubblica” il 3 maggio del 1984, all’indomani della sua scomparsa.
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«Seminara - è il ritratto che ci regala Italo Calvino - era un uomo tarchiato e taciturno, un volto corrucciato che ricordava un po’ il suo conterraneo Corrado Alvaro, ma con capelli crespi e occhi pungenti. Ci eravamo conosciuti agli inizi degli anni cinquanta e lo consideravo un coetaneo, sia pur un poco più anziano, perché il suo atteggiamento non era diverso da quello di tutti noi che avevamo esordito nel dopoguerra, con la stessa soggezione verso gli scrittori delle generazioni precedenti che potevano emettere sentenze inappellabili su quello che scrivevamo. Solo avvertivo in lui una concentrazione più ostinata, un silenzioso orgoglio».
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