
Aumentano gli alunni con disabilità, anche in Calabria
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La prima cattedra al “Panella” poi una lunghissima carriera coi ragazzi incontrati nelle aule degli istituti di Reggio Calabria. Mimmo Nasone si racconta ad Avvenire di Calabria: «Cultura e lavoro sono i capisaldi da trasmettere ai più giovani per farli crescere in autonomia da malaffare e corruzione».
Lascia una cattedra vuota, ma tanti cuori colmi di gratitudine. Sono quelli degli studenti incontrati in questi anni: Domenico Nasone, per tutti Mimmo, è andato in pensione dopo tantissimi anni vissuti in classe da insegnante di religione a Reggio Calabria.
Il mio impegno pastorale ed educativo parte nel 1973, ma certamente una tappa importante è stata certamente quella vissuta tra i banchi delle scuole reggine. Ho iniziato il 10 settembre 1979 proprio al “Panella”, la scuola dove mi ero diplomato. Ricordo che il mio primo giorno da insegnate venni accompagnato fino all’ingresso della scuola proprio da don Italo che quell’anno andava in pensione. Mi incoraggiò e mi disse: «Ora tocca a te». E mi salutò con un benevolo ceffone. Poi, nella primavera del 1987, mi sono dimesso dall’insegnamento della religione coerentemente con la mia decisione di essere dispensato dall’esercizio del sacerdozio. Oggi il mio pensiero grato va a don Umberto Lauro che nell’agosto del 2007, col parere favorevole del vescovo Vittorio Mondello, mi ha consentito di ritornare a insegnare religione. Sento di esprimere gratitudine anche ai vescovi Morosini e Morrone che hanno continuato a darmi fiducia incaricandomi per l’insegnamento in tutti questi anni.
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Avevo sedici anni e frequentavo la classe III C Elettrotecnici. Era il 1970, l’anno della rivolta di Reggio. Quando arrivò in classe don Italo, ci colpì che, dopo averci chiesto di presentarci, ci disse che voleva conoscere i nostri genitori. Ricordo che li incontrò ad inizio anno scolastico per due volte nei locali della “Casa dello Studente” che si trovava nel cortile della Curia. Conquistò noi e i nostri genitori, la maggior parte dei quali faceva fatica ad avere un lavoro dignitoso. A partire dalla rilettura delle loro storie, spesso cariche di soprusi e ingiustizie, don Italo ci stimolava a impegnarci per il nostro riscatto e ci motivava a studiare, a non accontentarci del sei politico che andava di moda.
Don Italo ci aiutava a scoprire il grande dono della vita e quando accennava al Vangelo di Gesù il suo sguardo si illuminava e il nostro commento era: «Veramente questo sacerdote crede a quello che insegna». A partire dalla sua testimonianza ci chiedeva di non sprecare la vita ma di consumarla nel modo migliore: il servizio agli ultimi. Ricordo che con i miei compagni eravamo arrivati all’ultimo anno, quello del diploma. Contestavamo tutto e tutti, Chiesa compresa. E don Italo non ci contraddiceva anzi, a volte, aggiungeva altri elementi di criticità che a noi sfuggivano. Tuttavia, dopo averci fatto sfogare ci chiedeva: «E allora? Siete proprio convinti che questa Chiesa e questa società non possiamo cambiarla?». E un giorno, dopo averci chiesto se sapevamo cosa fosse il manicomio, ci invitò ad andare con lui. Nel mio piccolo, quasi balbettando, ho cercato di applicare il metodo di don Italo, fondato sull’ascolto, sulla formazione delle coscienze, sulla conoscenza e interpretazione delle varie forme di ingiustizia e violenza e sulla capacità di far emergere quanto più possibile le potenzialità di ogni alunno.
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In questi anni la scuola certamente è cambiata non solo nella organizzazione e ridefinizione dei programmi, ma anche nella cresciuta consapevolezza del suo ruolo insostituibile per la formazione degli studenti di ogni età e classe. In questi ultimi anni la presenza di tanti giovani alunni, arrivati in Italia a seguito di emigrazione provocata da guerre e violenze di ogni genere, ha arricchito di nuove sensibilità, culture e religioni, il contesto scolastico. Queste diverse presenze hanno favorivo lo sviluppo di un dialogo interculturale e interreligioso.
Credo che don Italo avrebbe chiesto ai giovani maturandi di continuare a coltivare il loro impegno nello studio, iscrivendosi alle diverse facoltà che ci sono anche in Calabria. Senza trascurare l’indicazione di pensare a conquistare l’autonomia economica attraverso un lavoro onesto e dignitoso. Per don Italo il lavoro e la cultura erano gli strumenti indispensabili per non cedere alla tentazione della ‘ndrangheta e non farsi prendere dalla logica della corruzione e della raccomandazione.
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