Avvenire di Calabria

Pubblichiamo la testimonianza di Mary, una mamma che ha accompagnato la figlia Viviana durante una malattia terminale

La testimonianza: «La morte di Viviana, prova d’amore»

Mary Arena

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È difficile contenere il fiume di ricordi che raccontano il cuore ferito di una madre, l’amore per i propri figli è immenso, traboccante, e si effonde nella loro vita, con cure, attenzioni, bene. Ma la vita terrena di mia figlia Viviana si è conclusa il pomeriggio del 6 Dicembre 2010, all’età di 18 anni. Il suo sorriso, la gioia, la fretta di gustare la vita, le hanno permesso di succhiare il ‘midollo’ dell’esistenza e di affrontare con serenità la malattia. Ricordo quando i medici le dissero del tumore: il suo pianto fu breve, ma il coraggio e l’amore per la famiglia l’accompagnarono per tutto il tempo che le rimase. Il dolore mi comprimeva, ma non era il momento per lasciarsi schiacciare, era necessario rimanere lucidi per ragionare, per fare delle scelte, per prendersi cura della famiglia, per pregare. In quel reparto di ospedale di Genova noi mamme avevamo quasi tutte la stessa espressione, segnata dal dolore e dalla paura. La stanza della cucina era il posto dove i nostri figli non potevano entrare ed era diventata la stanza del pianto, della condivisione e degli abbracci. Ogni giorno mi recavo nella chiesa di San Gerolamo e, come alcune mamme, chiedevo la grazia della guarigione per mia figlia.

Tanta speranza nelle parole dei medici, le cure venivano fatte come da protocollo e i risultati erano soddisfacenti. «Viviana, a Settembre potrai tornare a scuola», furono le parole del dottore a giugno. Il 23 luglio festeggiammo i suoi 18 anni in una pizzeria vicino l’ospedale; i medici vollero farle il regalo di farla uscire per due giorni. Fu una festa meravigliosa, vennero parenti e amici da Reggio e Milano; Viviana indossava una bandana in testa, coordinata al suo vestitino. Da lì a pochi giorni la catastrofe: la salute degenerò, furono eseguiti nuovi protocolli ma erano evidenti i segni che la situazione stava precipitando. Lo sconforto dilagava dentro di me e il senso di abbandono che provai un giorno in chiesa fu grande. Sentivo di toccare il fondo, non trovavo acqua per tenermi viva. Mi fu detto: «Cerca sotto il barile». Leggevo la stanchezza negli occhi di mia figlia, ma anche tanto amore. Mi chiedeva sempre la mano, la sera ci addormentavamo così, mano nella mano. Dopo i tentativi fatti, i medici ci diedero la sentenza: potevamo tornare a Reggio per far vivere l’ultimo tempo di vita di Viviana, nella sua casa. Ebbi dieci minuti di smarrimento e cinque per ricompormi; dovevo tornare nella sua stanza senza destare sospetti, aveva bisogno di me, volevo starle vicino... ma come spiegare del nostro ritorno a Reggio? Il Signore è grande e il suo Spirito suggerisce parole giuste, e così fu…

Viviana era serena, ormai nel cuore aveva solo Gesù. Si fidava di me, non l’ho tradita ma l’ho protetta dal dolore del distacco e accompagnata nelle braccia di Maria Santissima, la Mamma che promette la cura dei figli nati al cielo. Oggi comprendo di essere andata oltre il fondo del barile e di avere trovato la forza in quella Sorgente che mi ha spinto verso l’alto.

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