
Autismo e scuola: «Costruire relazioni è il primo passo verso l’inclusione»
La professoressa Annamaria Curatola, docente e formatrice, analizza il significato profondo dell’inclusione scolastica per gli studenti con disturbo dello spettro autistico
di Domenico Nunnari - Accadde molti anni fa, forse cinquanta. Era la festa di San Giuseppe, giorno dell’onomastico di mio padre. Eravamo nella cucina della casa di Bagnara. Per quel giorno di festa mamma aveva cucinato ragù di carne, a lento fuoco, come piaceva al suo adorato Peppino. Nella cucina entrava un raggio di sole che illuminava tutto con una luce speciale. Alla fine del pranzo padre e figlio ci alzammo da tavola e ci abbracciammo forte sotto lo sguardo tenero di mamma. Fu un abbraccio vigoroso a cui si unì mamma. Un attimo di silenzio e di felicità autentica. Una preghiera non pronunciata, ma di comunione: “In nome del padre, del figlio e dello Spirito Santo”. Non l’ho mai più dimenticato quell’attimo di felicità familiare. Mi torna in mente quando mi chiedo che cosa significa essere padre. E se non trovo la risposta, vado a cercarla metaforicamente in quell’abbraccio forte. In quell’istante di felicità autentica in una modesta casa, dove c’era quello che bastava ma sovrabbondava l’amore paterno e materno.
Sì, paterno e materno, perché l’amore verso i figli non può essere disgiunto.
Sono diversi i ruoli di padre e madre, ma senza l’armonia tutto svanisce. Anche la musica senza armonia sarebbe solo rumore. Quel giorno di San Giuseppe di quasi mezzo secolo fa non accadde nulla per caso. Con quell’abbraccio potente mio padre mi passava il testimone della paternità. In quel momento magico cancellava gli anni dolorosi della guerra, il ritorno a casa sconfitto e umiliato dalla lunga prigionia. Annullava le sofferenze della ricerca di lavoro che ieri come oggi al Sud non c’è. Ma quel giorno lui aveva vinto. Aveva raggiunto il traguardo della vita. Aveva davanti a sé una famiglia: padre, madre e figlio. Quando è arrivata Roberta, frutto dell’amore con Caterina, mia splendida sposa, ho cercato di ispirarmi a lui per fare il padre. Non so che padre sono, ma so che figlia ho. Su questo stesso giornale Roberta ha scritto sul suo ruolo di giovane madre (sul numero del 5 marzo 2017, pagina 7, ndr), sull’importanza della maternità che primeggia su tutto il resto. Oggi la mia visione di paternità si è allargata al mestiere di nonno, di grand père come dicono i francesi. Il nonno è un padre speciale, colma i vuoti lasciati da genitore.
Quando Roberta è nata mio padre era morto da poco. Se avessimo avuto un figlio maschio l’avremmo chiamato Giuseppe per onorare mio padre.
Giuseppe però è arrivato.
Quando Roberta ha saputo che aspettava un figlio maschio è venuta a casa e mi ha detto: «Senti papà, ho parlato con Luigi e abbiamo deciso, si chiamerà Giuseppe, come tuo padre, il nonno che non ho mai conosciuto».
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