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Pubblichiamo il colloquio tra un’operatrice e un ospite del Cereso, comunità di recupero da dipendenze.
di Antonella Muscatello * - Occhi bassi, viso smunto, evidenti segni sulle braccia e sul collo. Una guardia consegna i pochi fogli che compongono il magro curriculum dell’ultimo arrivato e lo lascia in consegna a me che sono di turno, congedandolo con poche parole, di incoraggiamento.
«Siediti e parliamo» – gli dico. E con queste parole comincia la storia.
E Marco parla. Inizia a raccontare di sé, degli ultimi anni, della sua frenesia di droga che lo ha portato a perdere tutto: la famiglia, la fidanzata, il lavoro. «È cominciata per gioco – mi dice – a una festa con amici. La fidanzata accanto, il drink in mano, la musica forte. La noia. Non avevo problemi gravi. Non c’era nella mia vita una perdita, una violenza, una difficoltà che giustifichi quello che ho fatto. E questo fa ancora più male. Un amico mi invita a seguirlo in bagno. È tutto acceso, veloce, adrenalinico. Mi dico “Ma si, che vuoi che sia!” e lo faccio. La prima volta sto malissimo. Avevo la sensazione di perdere il contatto con la realtà per sempre. Poi mi calmo e sale l’euforia, la leggerezza. Non penso più a niente per tutta la sera, rido più forte, sono più socievole. La mattina dopo, nel guardarmi allo specchio mi sono detto che non l’avrei più fatto ma era come se qualcosa dentro si fosse rotto. Nei giorni successivi, al lavoro, mi capitava di distrarmi e di pensare a quelle sensazioni, a quel falso benessere. Mi sentivo distratto, con la testa tra le nuvole. Un’altra festa e un’altra botta. E un’altra. Passato qualche tempo non cercavo più le occasioni. Avevo preso i contatti con gente che mi riforniva e mi facevo da solo. Ero diventato geloso della droga. Scontroso. Atrofizzato a qualsiasi emozione. Distante da tutto e da tutti. Morto, anche se ancora vivo. Ho perso prima il lavoro, poi è stata una valanga di eventi che mi ha portato in carcere. In cella, non mi alzavo neppure dal letto. Non andavo al colloquio, non volevo parlare con l’avvocato. Mi ha proposto la comunità ma io non sentivo dentro nessuna spinta, nessuno stimolo. Volevo morire. Poi un giorno ho alzato lo sguardo e ho incrociato quello di mia madre. Piangeva. Sono qui per lei e spero di farcela».
Quando esce dal mio ufficio, telefono alla madre: «è arrivato Marco – le dico – e ascolto in silenzio il suo pianto. Poi, piano risponde con un grazie ». Esco dalla comunità con il cuore pieno e pesante. Penso a sua madre e alle notti insonni che avrà passato aspettandolo. E penso a me. Chiamata ogni giorno a seminare speranza. E spero, spero che lui ce la faccia, che ognuno dei ragazzi riesca a riscoprire il senso autentico della propria vita. La comunità è questo, un luogo speciale in cui rinasce la vita. Ciascuno è chiamato ad attraversare la notte del dolore, della paura, del fallimento. Solo attraverso questa faticoso passaggio ognuno di loro può rialzarsi e riprendere a camminare. Nelle piccole cose di ogni giorno ciascuno può riscoprire il gusto della quotidianità, delle gioie semplici. Dopo qualche giorno, arrivando al lavoro, mi apre la porta Marco. E mi sorride. «È bello! », penso. Ancora smunto e segnato dalla fatica, ma ha un sorriso aperto e il suo sguardo è più sereno. Pochi scambi, semplici battute. Mi avvicino al mio ufficio e sorrido anch’io. È Pasqua.
* operatrice Cereso
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