Una riflessione sulle assenze delle agenzie educative sul caso della tredicenne
Melito, tante domande e poche risposte
Redazione Web
16 Settembre 2016
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di Eliana Liuzzo - La famiglia dov’era? La scuola, la chiesa? Nessuno se n’è accorto? In paese nessuno sapeva? Da giorni ormai, tra le vie di Melito di Porto Salvo così come tra gli innumerevoli canali della rete virtuale, si rincorrono veloci simili interrogativi, senza tuttavia trovare risposta. D’altronde quale può essere la risposta a tanto male? La ndrangheta? È vero, la ndrangheta esiste anche a Melito. Chi può negarlo? Eppure in questa squallida vicenda c’è qualcosa che, paradossalmente, fa ancora più paura della ndrangheta degli appalti, della droga, delle armi. Infatti, accanto al figlio di un boss, c’è anche il figlio di un maresciallo, il fratello di un poliziotto. Tutti indistintamente schierati dalla parte del male. Tutti intenti a schiacciare con deprecabile pervicacia la dignità di una ragazzina. Tutti degni figli di quella cultura becera e maschilista che vuole la donna mero oggetto dei più bassi e inqualificabili istinti animali. Ci si interroga a Melito, mentre gli organi di informazione – comprensibilmente – danno eco alle infelici affermazioni a cui taluno ha osato abbandonarsi e che, per fortuna, non rappresentano né possono rappresentare il comune sentire della parte sana e preponderante del paese. Ci si interroga a Melito in questo inizio di settembre reso ancora più caldo dalla luce dei riflettori nazionali, ostinati a dimostrare come in questo lembo di terra del profondo Sud a regnare sia soprattutto l’omertà. Ci si interroga e in molti riconoscono le proprie responsabilità. Tra questi Don Benvenuto Malara, parroco della parrocchia Maria SS. Immacolata, che non ha esitato a chiedere perdono alla giovane così violentemente “saccheggiata” della sua intimità. Perdono perché è innegabile: in questa triste storia, protrattasi per oltre due anni, anche la parrocchia ha fatto registrare la sua pesante assenza e questa presa di coscienza risulta oggi tanto doverosa quanto dolorosa. Ma il sacerdote, da pastore di un’intera comunità, della quale fanno parte sia la vittima sia i carnefici, non può che pregare per l’una e per gli altri: per il pieno recupero della serenità da parte della ragazza e per la conversione sincera dei giovani macchiatisi di cotanta diabolica cattiveria. Così mercoledì 14 settembre, in occasione della solennità dell’esaltazione della Santa Croce, in molti hanno accolto l’appello di don Benvenuto a partecipare numerosi alla veglia di preghiera. Tanti melitesi consapevoli, oggi più che mai, della necessità di alimentare la speranza in un paese troppo spesso al centro di spiacevoli fatti di cronaca. A questo momento di raccoglimento ne seguiranno altri, perché, sì, è il momento di agire, ma l’azione di una comunità cristiana può dirsi davvero efficace solo se preceduta e accompagnata dalla preghiera.
Un cinquantenne di Melito Porto Salvo era in servizio presso la casa circondariale di Reggio Calabria. Il suo, secondo gli inquirenti, non solo un ruolo di talpa, ma anche di sodale del boss Remingo Iamonte operando anche azione delittuose.
Parla il procuratore aggiunto (nella foto) che spiega come l’accusa abbia retto rispetto ai sette giovani indagati per abuso e violenza di gruppo. «Senza quell’insegnante, probabilmente, la storia non l’avremmo conosciuta», spiega.
L’appello dell’associazione di don Ciotti rispetto al caso della minore violentata da un gruppo di ventenni di Melito Porto Salvo, tra cui Giovanni Iamonte, figlio del boss del paese del basso jonio di Reggio Calabria.
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