Avvenire di Calabria

Dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, i riflettori si riaccendono sul contrasto alle mafie

‘Ndrangheta, Bombardieri: «Serve una reazione collettiva»

La differenza tra Calabria e Sicilia è lampante. Il magistrato: «La società civile aiuti chi denuncia»

di Francesco Creazzo

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La cattura del superlatitante Matteo Messina Denaro, lo scorso 16 gennaio, ha fatto tornare sotto i riflettori una lotta alla criminalità organizzata spesso dimenticata negli ultimi anni. Se questo è innegabilmente un bene, occorre però evitare quelle narrative fuorvianti che stanno caratterizzando in queste ore il racconto. Ma soprattutto, che implicazioni ha per l'azione repressiva dello Stato questa rinnovata attenzione al di fuori della Sicilia? Lo abbiamo chiesto al procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri.

Procuratore, la cattura di Matteo Messina Denaro mette sotto gli occhi dell’opinione pubblica nazionale che la lotta alle mafie è ancora pienamente in corso. Come si deve parlare di questo tema? Ci sono narrative che vanno corrette?

Certamente la cattura di quello che era considerato il superlatitante, che da oltre 30 anni si sottraeva alle ricerche della magistratura e della polizia giudiziaria, ha riacceso l’interesse dell’opinione pubblica nazionale e della politica sul contrasto alla criminalità mafiosa. Ed è un bene, perché effettivamente, a livello nazionale, di lotta alla mafia se ne parlava poco, sempre meno. Quello che è importante ricordare è che la mafia, nelle sue articolazioni, e per quanto riguarda Reggio Calabria la ‘ndrangheta, non ha mai smesso di essere pericolosa; anzi è diventata più pervasiva, più insinuante, più pericolosa, ha infiltrato sempre di più l’economia legale, si è impossessata di aziende, si è rivolta a mercati criminali che non sembrano destare particolare allarme sociale, quali le frodi fiscali, le false fatturazioni, che pure inquinano fortemente l’economia legale, il traffico di rifiuti, i giochi e scommesse, i mercati finanziari, senza abbandonare gli appalti pubblici e la destinazione dei fondi pubblici, anche europei. In particolare la ‘Ndrangheta, sempre di più ha continuato ad operare sotto traccia, senza azioni eclatanti. Proprio per non destare, più del necessario, l’attenzione dell’opinione pubblica, per non determinare reazioni della politica, che all’opinione pubblica risponde, e quindi delle Istituzioni.


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È una fase nuova?

Certo, per fortuna, non siamo all’anno zero nel contrasto alla criminalità organizzata. Tanto è stato fatto, a partire da quella che è stata la stagione più buia della nostra Repubblica, la stagione stragista, e tanti risultati importanti sono stati raggiunti. Ma guai ad abbassare la guardia, guai ad illuderci che le mafie non siano più un pericolo: c’è ancora tanto da fare. Se ancora oggi in certi nostri territori non è possibile avviare un’attività commerciale senza il “permesso” della cosca che vi opera, se ancora oggi decine e decine di tonnellate di cocaina vengono fatte arrivare nei nostri porti procurando guadagni vertiginosi da investire anche nell’economia legale, inquinandola, se ancora oggi permangono intrecci pericolosi tra massonerie deviate e cosche, se ancora oggi verifichiamo che in alcuni casi, e che si tratta di episodi va detto e sottolineato senza inutili e pericolose generalizzazioni, il consenso elettorale passa attraverso il controllo delle cosche di ‘ndrangheta, allora certamente non possiamo dire che la ‘ndrangheta, e più in generale, le organizzazioni mafiose, non costituiscano un pericolo.

E nel mondo? Come è percepito il fenomeno?

Quello a cui assistiamo oggi è veramente particolare: in un momento in cui a livello internazionale, finalmente, si inizia a comprendere la reale pericolosità della criminalità organizzata italiana e della ‘ndrangheta, con le sue proiezioni in grado di infiltrare territori ed economie legali lontani migliaia di chilometri dalle nostre province, da noi si dice che le organizzazioni mafiose non sono più un pericolo, come se tutto si riducesse alla cattura di un latitante, per quanto pericoloso ed importante questo possa essere.

Cosa Nostra ha perso la sua pericolosità rispetto agli anni '90. È una parabola che possiamo aspettarci anche in Calabria? E se sì, a che condizioni?


È stato fatto nel contrasto alle mafie, specialmente in Sicilia a seguito del periodo stragista. La società civile, lo Stato ha reagito mettendo in campo un impegno straordinario in termini di uomini e di mezzi. Ed i risultati si sono visti: se possiamo dire che Cosa Nostra, pur rimanendo una mafia molto pericolosa, come dice lei, ha perso la pericolosità degli anni ‘90, non è più quella di quegli anni, con le sue infiltrazioni ad ogni livello della vita economica, sociale, istituzionale, è merito di quello straordinario sforzo che lo Stato ha realizzato. Oggi quello che si chiede è che un impegno altrettanto deciso venga realizzato contro la ‘ndrangheta; c’è sicuramente attenzione ma ancora molto occorre fare, nonostante venga considerata unanimemente l’organizzazione criminale mafiosa italiana più pericolosa e tra le più pericolose al mondo.

Cosa manca?

Se in una Corte di Appello come quella di Reggio Calabria, come ha ricordato il suo Presidente in più occasioni, ci sono circa 160 processi di criminalità organizzata che devono essere celebrati, con un organico di soli 13 giudici presenti - contro i 27 che dovrebbero esserci - e che si devono occupare dei processi penali (e non solo dei 160 di criminalità organizzata ma anche di criminalità comune), di processi civili, di procedimenti di misure di prevenzione e di tutte le altre competenze attribuite dalla legge, allora evidentemente c’è qualcosa che deve essere rivisto: è necessario dare risposte di giustizia sollecite alla gente e in queste condizioni diventa molto difficile. Senza parlare della necessità di aumentare le forze di polizia giudiziaria, presenti sul territorio, nonostante gli sforzi che vanno riconosciuti al Capo della Polizia ed ai Comandanti Generali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, che vanno ringraziati per la grande attenzione rivolta ai nostri territori.


PER APPROFONDIRE: Cattura Matteo Messina Denaro, le Acli: «Vittoria per la legalità»


Cosa è avvenuto in Sicilia che manca in Calabria, a livello di società civile?

Una reazione collettiva, la gente ha smesso di voltarsi dall’altra parte. Ha compreso che la pressione criminale su un imprenditore non è solo il problema di quell’imprenditore, ma è il problema di tutti, è un problema di libertà. Ed è quello che ancora non è avvenuto in Calabria, dove molta gente continua a “girarsi dall’altra parte” pure di fronte alla pressione criminale delle organizzazioni ‘ndranghetiste. Ricordo sempre una circostanza raccontatami da un imprenditore, un commerciante, che qualche anno addietro, non ce l’ha fatta più a tollerare la pressione criminale di una cosca di ‘ndrangheta ed aveva denunciato. Sconfortato mi raccontava che lui era rimasto, non voleva andare via, come pure gli era stato proposto, perché voleva continuare a vivere in questa terra, la sua terra. Ma mi diceva che fino a quando aveva pagato il pizzo il suo negozio era pieno di clienti, ma dal giorno successivo alla sua denuncia il suo negozio si era svuotato. E quello che lo sconfortava di più, mi diceva, era constatare che quelli che non andavano più al suo negozio non erano solo i mafiosi ma anche “la gente comune”, i clienti di sempre, che, evidentemente, ritenevano “un problema” la sua coraggiosa denuncia. Per cambiare veramente occorre non girarsi dall’altra parte: sostenere chi ha il coraggio di denunciare, non lasciarlo solo: chi denuncia non ha bisogno solo della protezione delle forze dell’ordine, ha bisogno di non sentirsi abbandonato dalla società civile.

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