Avvenire di Calabria

Al Centro diurno “Fondo Versace” della Piccola Opera Papa Giovanni, la disabilità diventa occasione di incontro e partecipazione

Quelle “voci dal fondo” che chiedono normalità

Nel laboratorio di giornalismo, la scrittura è uno strumento di relazione e inclusione. L’educatrice Luisa Mafrici: «Sulla disabilità mentale, meno convegni e più relazioni vere»

di Francesco Chindemi

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Il Centro Diurno “Fondo Versace” della Piccola Opera Papa Giovanni di Reggio Calabria è uno spazio in cui le persone con disabilità adulte possono esprimersi, crescere e partecipare attivamente alla vita sociale. Tra le esperienze nate in questo contesto c’è anche il progetto di giornalismo inclusivo Voci dal Fondo. Del progetto, e non solo, ne parliamo con Luisa Mafrici, educatrice che lavora da due anni al Centro.

Qual è la tua esperienza qui, da quanto tempo sei al Fondo Versace e di cosa ti occupi in particolare?

Lavoro qui da quasi due anni. Il laboratorio che gestisco in realtà non è un laboratorio in senso stretto, perché lavoriamo molto sulle relazioni. Questo per me è fondamentale: le persone esistono proprio per stare in relazione con se stesse e con gli altri. Cerco quindi di stimolare il pensiero: tutti noi abbiamo pensieri dentro, anche chi ha difficoltà di verbalizzazione. Da questo lavoro di osservazione sono emerse le competenze dei ragazzi e così è nato il progetto di giornalismo.



Insieme, ogni mese, costruiamo un giornalino che si chiama Voci dal Fondo, proprio per dire “ci siamo anche noi, abbiamo qualcosa da raccontare”. Per i ragazzi il tempo trascorso qui è solo una parte della loro vita. Per questo non parliamo solo di ciò che accade nel Centro, ma anche di ciò che viviamo all’esterno.

Cosa rappresenta questo mettersi in relazione con l’esterno?

Mettersi in relazione “con”, uscire verso l’esterno è proprio l’obiettivo. Il giornalino non deve rimanere un’esperienza chiusa, fine a se stessa. Deve uscire fuori, emergere.


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Abbiamo costruito una base e ora stiamo progettando come dare continuità a questo lavoro che va oltre quello che può sembrare il semplice aspetto editoriale.

Quanto attività come il giornalismo, la scrittura o la creatività possono migliorare la vita di questi ragazzi?

All’inizio leggevamo articoli di giornale e li commentavamo insieme. Poi ho pensato che le tecnologie potessero essere uno strumento ancora più utile che avvicina alla “normalità” del vissuto quotidiano e lì c’è stata la svolta. Il computer, ad esempio, è qualcosa che usiamo tutti: perché non farlo usare anche a chi vive una condizione di disabilità? È un modo per dare scorci di normalità, per dire “anch’io posso farlo”. Sono strumenti attrattivi e quotidiani che aiutano e facilitano tanti aspetti della vita.

Oggi si parla molto di salute mentale, ma spesso restano pregiudizi. Quale messaggio possiamo condividere quando parliamo di benessere e di stare insieme agli altri?

Prima di ogni cosa dobbiamo pensare che di fronte a noi c’è una persona. Non siamo solo una diagnosi. Ognuno, qualunque sia la sua condizione, ha un mondo interiore che deve emergere.



Credo che invece di fare tanti convegni sulle persone con disabilità bisognerebbe stare di più con loro, ascoltarle, osservare davvero. Da loro possono emergere tantissime risorse, ma anche richieste. Un esempio concreto è proprio il nostro giornalino: un modo per dare voce a chi spesso non viene ascoltato. Don Italo Calabrò - anche se non è qui presente fisicamente, ma lo è nel nostro agire educativo - ci ricorda sempre di non escludere mai nessuno. È una guida che ci aiuta a pensare sempre alla persona per ciò ch è, non per la diagnosi.

In realtà sociali come le vostre si fa tanto, ma questo basta o serve altro da parte della comunità?

Più supporto c’è nel nostro agire educativo, migliori sono le condizioni della persona. Il benessere che offriamo alle famiglie è una parte, ma c’è anche la realtà territoriale, quella calabrese, con cui ci confrontiamo ogni giorno, che debba essere ancor più di supporto. Credo serva un sostegno ancora più inclusivo. Ripeto. Meno convegni e più relazioni dirette con le persone: è lì che avviene lo scambio vero e che si capisce davvero quali sono esigenze e bisogni.

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