Cosa c’è di più «tradizionale» di un invito a cena? La voglia di condividere la propria casa (e il proprio gusto culinario) è insito nel dna italiano. Lo sa bene, Gaetano Campolo, cuoco trentunenne reggino, che ha voluto proiettare questa peculiarità tricolore nell’era del web. Nasce così l’intuizione di Home Restaurant Hotel, la prima rete del social eating nel Belpaese.
Una soluzione di impresa «leggera» che può essere un’ottima start–up per aspiranti cuochi, food–blogger e proprietari immobiliari. Una misura anti–crisi, soprattutto se si valuta l’aumento sconsiderato degli appartamenti (anche di assoluto pregio) che rimangono chiusi, che però si scontra con una deregulation nazionale poco incline ad assorbire le direttive europee in materia.
Ancora una volta, infatti, l’industria 4.0 è maldigerita (e non c’è termine più appropriato) dalla classe dirigente italiana: il caso che ha fatto scuola, ovviamente è lo scontro tra Uber, un servizio di trasporto automobilistico privato attraverso un’applicazione mobile che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti, e i tassisti italiani che ha visto il nostro Paese schierarsi in modo diametralmente opposto rispetto al resto del Vecchio Continente. «Un problema prima di tutto culturale – come spiega l’avvocato Giorgio Taormina che segue da vicino la vicenda del social eating – in un Paese che non riesce ad accettare le “nuove” regole del mer- cato nell’era digitale».
Ma prima di addentrarci nei «vuoti» legislativi in materia occorre fare un passo indietro. Cos’è il social eating? Si tratta di una sfida ricettiva innovativa che preve tre formule: l’home restaurant, ossia la possibilità di organizzare delle cene tematiche nel proprio appartamento; il «cuoco a domicilio», ovvero la possibilità di preparare le proprie prelibatezze direttamente a casa dei propri clienti; e il restaurant hotel, che potremmo sintetizzare in un’estensione del concetto di bed& breakfast ampliato con i servizi di una cucina a disposizione (a pranzo e a cena).
Un’idea che nel giugno 2016 è diventato un brevetto di proprietà del reggino Campolo, passione per la buona cucina e un background imprenditoriale che deriva dall’esperienza del nonno, proprio in riva allo Stretto. «Raccolgo quotidianamente storie di tanti ragazzi – afferma Campolo – che attraverso questa opportunità possono misurarsi col mondo del lavoro senza dover sostenere dei costi di avvio oggettivamente massacranti». Parliamo di un tipo di impresa che negli Stati Uniti raccoglie 18mila clic giornalieri e che, in Italia, in appena quindici giorni ha già racimolato quasi 40 richieste di affiliazione da tutti i territori dello Stivale. La prova di fattibilità del progetto, Campolo l’ha fatta a Firenze, con ottimi riscontri economici. Può essere il part–time del futuro per tanti ragazzi partendo proprio dal mantra della dialettica politica degli ultimi vent’anni ossia la valorizzazione del patrimonio culturale del nostro Paese.
Quello che manca è una legge di settore, anche se un tentativo, pochi mesi fa, è stato fatto. «Il 17 gennaio 2017 è stata approvata alla Camera una proposta di legge che limitava l’esercizio dell’attività commerciale a 500 coperti e un massimo di 5mila euro di fatturato annuo – descrive Campolo – con un provvedimento lampo, il 30 marzo dell’anno scorso, l’Antitrust ha immediatamente cassato questa proposta che chiaramente voleva distruggere un fenomeno emergente quale il social eating ». Il motivo? Campolo non ha dubbi: «Si tratta di un ostruzionismo tipico delle lobby». Su questo promette battaglia. Una questione giurisdizionale sulla quale l’avvocato Taormina, però, ha le idee chiare: «Va vagliata una normativa che contempli tutti gli elementi di carattere pubblico da tutelare: il rispetto delle norme igienico– sanitarie, la gestione fiscale e previdenziale e l’assicurazione dei locali».