Avvenire di Calabria

Nelle famiglie di ’ndrangheta sono le madri a chiedere che i figli vengano portati via. E loro si adattano quando «fanno nuove amicizie»

Di Bella: «Le relazioni salvano i ragazzi dalla mafia»

Davide Imeneo

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Lo hanno chiamato “ladro di bambini”, “confiscatore di figli”. Ma da quando, nel 2011, Roberto Di Bella è diventato presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, è stato sicuramente un innovatore: ha avuto la brillante idea di sospendere la responsabilità genitoriale ai mafiosi. Ad oggi ha allontanato 70 minorenni dalle famiglie di ‘ndrangheta. Nel suo lavoro quotidiano, Di Bella ha continui colloqui e incontri con le donne dei clan, soprattutto le “vedove bianche”, le mogli dei reclusi al 41 bis. Proprio grazie al loro coraggio è stato possibile salvare molti bambini: «Se fino a molto tempo fa la donna di ndrangheta era vista come colei che assicura la continuità generazionale anche quando i mariti sono stati uccisi o sono in carcere, spiega Di Bella, adesso ci stiamo accorgendo che le donne più giovani, di 30–40 anni, cominciano a manifestare la loro sofferenza. Le famiglie di ‘ndrangheta, infatti, costruiscono delle vere e proprie prigioni culturali.

Come entrate in contatto con le “vedove bianche”?
Vengono qui perché ci occupiamo dei loro figli, paradossalmente il contatto con il Tribunale per i minorenni diventa un opportunità: qui le donne possono coltivare una speranza di riscatto. Chiaramente sono percorsi molto lenti. All’inizio sono molto diffidenti nei confronti dell’autorità giudiziaria, perciò cerchiamo di costruire progressivamente delle relazioni: diamo il tempo di poter riflettere e parliamo loro in modo diretto.

C’è un momento in cui il loro atteggiamento cambia però...
Spesso faccio questo ragionamento alle signore che accettano di parlare con me: “signora lei ha il marito in carcere o all’ergastolo, cosa fa? Rimane prigioniera di questa famiglia? Può avere altre relazioni sentimentali, di amicizia all’esterno della sua famiglia?” Allora ci accorgiamo che il viso spesso è solcato da lacrime che dicono moltissimo. A quel punto cominciamo a parlare direttamente. Noi abbiamo la possibilità di farle andare via e le incoraggiamo a farlo per loro stesse ma anche per i loro figli, per sottrarli a un destino che spesso è inesorabile. E quello che prospettiamo. E chiaramente qualcuna ha iniziato percorsi di collaborazione con la giustizia.

Quindi tutto inizia quando le donne prendono consapevolezza del loro stato di “prigionia”?
Secondo il codice mafioso, queste signore che hanno i mariti all’ergastolo devono solo occuparsi dei figli, li possono accompagnare a scuola, possono andare al supermercato a fare la spesa, ma al di la di questo, non possono fare nulla. Però ci sono dei bisogni affettivi profondi. Qualcuna di loro mi ha detto: “Vorrei che i miei figli avessero un riferimento maschile, avessero un padre” che purtroppo per motivi oggettivi è molto lontano. Alcune hanno espiato pure delle pene detentive, sono state costrette a riscuotere il pizzo o a svolgere altre attività illecite e, pur non avendo un animo mafioso, sono rimaste incastrate in questo meccanismo per ubbidire a quelle che erano le direttive del marito, della famiglia.

Una sofferenza dovuta al fatto che la donna viene volutamente “tenuta in casa”.
Le dico di più, un pentito ci ha detto anche che in certi contesti le ragazze a un certo punto vengono ritirate da scuola, per cui non si vuole neanche che ci sia troppa cultura, non proseguono gli studi. Molte di queste donne ci hanno detto che i loro matrimoni sono stati imposti dai loro genitori, quindi non hanno avuto neanche la possibilità di scegliere l’uomo che amavano. Queste situazioni alla lunga si pagano, portano sofferenza. Le cose cambiano quando lentamente le donne acquistano consapevolezza del loro potenziale, delle loro possibilità, e si fidano del confronto con il giudice. Vengono da noi e si sfogano e ci dicono quello che gli è vietato, le loro ansie, le loro frustrazioni...tutti argomenti che non possono chiaramente esternare ai loro familiari.

La loro vita sociale è del tutto preclusa...
Qualcuna ci ha raccontato che andavano a mare e non potevano neanche stare in costume. Un pentito ci ha detto che alla sua fidanzata, come ad altre donne di quei contesti, hanno fatto fare dei corsi prematrimoniali accelerati, perché anche la Chiesa fa contaminazione culturale e in certe famiglie questo non piace, perché la cultura può portare anche alla ribellione, alla consapevolezza di uno stato di “prigionia” e di mancanza di libertà.

L’affettività gioca un ruolo fondamentale, anche nella vita di quei figli di ‘ndrangheta che vengono allontanati dalle loro famiglie.
Il momento iniziale è di profonda sofferenza perché i ragazzi vengono allontanati da quello che loro ritengono il “loro mondo”. In seguito le relazioni con i compagni di classe, le nuove amicizie e anche il fidanzamento non condizionato da logiche mafiose, diventano momenti molto belli di apertura, di conoscenza di se, dei propri limiti, dei limiti della propria famiglia. Da un lato c’è la fedeltà agli affetti originari a cui si contrappone invece un nuovo mondo, nuovi sentimenti autentici, realtà completamente diverse. In alcuni casi serve lo psicologo perché il contrasto fra i due mondi è molto forte. I risultati migliori li abbiamo avuti con i ragazzi che si sono fidanzati, qualcuno di loro ha avuto già dei figli e si è costruito una famiglia lontano da qui.

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